Cos'è l'amicizia? Il vocabolario riporta: sentimento di affetto, di simpatia, di solidarietà, di stima tra due o più persone che si traduce in rapporto di dimestichezza e familiarità.
Per me l'amicizia è qualcosa che travalica il semplice rapporto umano. È moto del cuore, è trasporto che trascende la pur completa definizione, è cura che supera il senso di responsabilità.
L'amicizia non è dovuta, è sentita. Sorge spontanea e si sviluppa nel momento in cui senti la necessità di dedicare il tuo tempo all'altro, quando ti adoperi affinché la gioia e l'allegria, in ultima istanza il benessere, si impossessino dell'amico.
L'amicizia è sicuramente condivisione, ma non è solo fare le cose insieme. E’ la percezione di quale sentimento o pensiero stia albergando nell'animo e nella mente dell'amico che ti sta accanto.
L'amicizia è qualcosa che somiglia molto all'amore, lo si potrebbe definire fraterno. Questo è ciò che Flavia e Michele ci hanno offerto. Un sentimento pieno a cui io e Lucia siamo legati e che contraccambiamo. Un sentimento che va oltre il semplice grazie.
Per gli esteti del camminare senza vincoli e sempre ben disposti verso imprevedibili
problematiche il cammino di Santiago, o qualsiasi altro cammino abbastanza benevolo e accondiscendente verso l’umano attonito e confuso da tanto spazio, deve sembrare una aberrazione dell’idea stessa di cammino.
Ma per chi, come me, ha un prevalente orizzonte cittadino, ha un’idea minimalista di spostamento, ha un’oggettiva difficoltà a esternare le proprie difficoltà e dare voce al proprio disagio, il cammino rappresenta una nuova dimensione da esplorare. Una dimensione così nuova da rimanere interdetti e spaventati. Tanto spazio mi intimorisce e l’idea che in quello spazio ci possa essere qualcuno o qualcosa che mi accolga, mi assista, mi rifocilli e mi offra un riparo mi permette di superare la paura di fare il primo passo.
Ecco, la cosa più difficile è proprio fare il primo passo. Dopo il primo, il secondo è più leggero e così il terzo e gli altri a venire. E pure lo zaino, il cui peso è pari se non superiore all’oppressione che mi accompagna da quando sono partito dai luoghi che tutelano le mie
sicurezze, perde la sua consistenza fino ad adattarsi al mio corpo, a divenire parte integrante del cammino che sto compiendo.
In quello zaino ho tentato di mettere tutto il confort che mi potrà necessitare. Me lo porto addosso come reliquia preziosa. Ho fatto fatica a trascinarlo per tutti i chilometri che separano una branda da un’altra. E quando arrivo lo poso a terra e mi scombussola il dover costatare quanta difficoltà ho nel relazionarmi con esso. Esco tutto per trovare quello che sto cercando e guardo con aria smarrita tutta quella roba che dovrò risistemare. Eppure già alla terza branda non ho più necessità d i cercare. So benissimo dov’è ciò che cerco e ho compreso di non aver bisogno di tutto ciò che ho portato. Anche questo rappresenta un cambiamento che non pensavo potesse accadere.
E la branda è il luogo dove riposare, dove recuperare le energie fisiche, dove far affiorare le emozioni che ho vissuto durante il cammino. È un luogo intimo la branda. Non ha importanza se essa è posizionata sopra o sotto un’altra, è irrilevante se intorno ad essa si ammassano altre brande che accolgono perfetti sconosciuti. Le brande si ammantano di buio, di silenzio, di umana consapevolezza. I corpi che su esse si sdraiano emanano compassione. Membra affaticate, a volte sofferenti, ma pieni di dignità. Non puzzano, non odorano. Sono puliti ma sono neutri. Non hanno orpelli, non sbandierano niente di superfluo. Unici ornamenti sono i cerotti, le fasce, le calze elastiche, le pomate per idratare i piedi. Ecco i piedi sono la cosa più importante. Vanno curati e trattati con ogni riguardo. È uno strumento la branda: mi permette di sostare ma mi espelle appena fuori albeggia.
E prima della branda c’è il pasto, la condivisione con gli altri. Sento di averlo conquistato quel pasto. Spesso l’ho anche cucinato ed è una gioia immensa poterlo condividere con chi vuole. Culture che si mescolano; bocche che emanano suoni diversi: gutturali, dolci, melliflui, direttivi, supplichevoli. Corpi che gestiscono la comunicazione non verbale; risate che trasmettono gioia ed invogliano a proseguire nell’incontro, nella comprensione del mio simile ma che la sorte ha fatto nascere lontano da me.
Uno scrittore ha affermato:“ La felicità è sempre un fatto soggettivo, attiene alla persona; la responsabilità no, attiene alla collettività”. Sicuramente è vero ma c’è un principio buddista che afferma: “Se cambi te stesso cambi tutto ciò che ti circonda”. E se cambi te stesso diventando una persona felice come diverrà tutto ciò che ti circonda? Quindi la felicità è senza dubbio un fatto soggettivo che attiene alla persona, ma se ti assumi la responsabilità di rendere felice la collettività che ti circonda allora diventa un fatto oggettivo.
Questo è quanto ho potuto assimilare lungo il cammino. Al netto delle motivazioni per cui ognuno ha deciso di intraprendere un cammino e al netto delle piccole disavventure ciò che ho osservato sui visi delle persone incrociate è sempre stato un’espressione di gioia, quasi felicità assoluta.
E se per un attimo sui visi sono comparsi un cruccio, una lacrima, un’ombra, subito la collettività ha assorbito quel cruccio, quella lacrima, quell’ombra, restituendo un sorriso. E se per un attimo quei visi si sono fatti cupi per quei disegni religiosi tetri e per l’ostilità con cui quelle statue calpestavano le teste degli sconfitti non credenti, subito l’ambiente ha risposto offrendo la maestosità di un paesaggio immenso, di un paesaggio altrettanto sacro ma non di parte.
- questa la vera forza del cammino. Forza che si ripropone ogni volta che dai il buon giorno ai tuoi compagni o auguri un “buen camino” a chiunque incontri. È una forza contagiosa, una forza che ti spinge sempre un pochino più in là. È contagiosa la felicità lungo il cammino. Gruppi che si saldano, si dividono, si ritrovano ma che portano sempre dentro l’emozione di quei momenti, pochi o tanti non ha importanza, che li hanno visto camminare uniti, sorridere e godere di ciò che li circondava.
Ed ogni volta che avviene una mescolanza la forza della gioia si decuplica fino al punto di costruire un lungo tunnel di felicità che parte dai Pirenei e giunge all’Atlantico.
E solo in un tunnel simile si possono incontrare due cani: un lupo vecchio e sordo ed un meticcio vigile e pieno di zecche. Loro ci guardano, noi abbiamo compassione e offriamo loro un biscotto. Loro rifiutano ma ci fanno da scorta per tutta la tappa. Sedici chilometri dove ci affiancano se camminiamo, si acquattano se ci fermiamo, si mettono in disparte se entriamo in una locanda a prendere un caffè, si fermano e aspettano se uno di noi si è attardato.
Fuori da un contesto simile può succedere ciò? Puòaccadere che due animali liberi scelgano un umano come compagnia per quel giorno? Può succedere che ci difendano , difendendo se stessi, da altri cani? Può succedere che un pellegrino incontrandoci ci chieda se quei due cani fossero nostri e che scoprendo la verità ci dica: “Si vede che siete brave persone!”.
Che insegnamento trarre da questo episodio? Perché hanno scelto noi? È forse perché abbiamo offerto loro un biscotto che tra l’altro hanno rifiutato? L’unica spiegazione che sono riuscito a dare è che quella mattina noi eravamo veramente felici e loro sono entrati nella nostra dimensione. Annusando questa felicità e godendone hanno deciso di fare un pezzo di strada insieme, come vecchi amici, come abitanti dello stesso universo.
La prima volta che lo abbiamo incontrato è stato a Sarria. Ci è venuto incontro con un’andatura così particolare da destare in noi tanta curiosità. incrociandoci ci ha augurato un “Buen camino”.
Non sembrava un pellegrino in cammino, non aveva alcun zaino sulle spalle. Più che altro sembrava un satiro appena uscito da un bosco: basso, tondo, molto tondo, rubicondo in viso, cappellaccio a falde larghe e flosce in testa, pantaloncini corti, scarponi comodi, felpa cerata, barba irsuta e un bastone nelle mani.
Lo abbiamo battezzato “Dotto”, come quello dei sette nani. A me dava l’idea di assomigliare più ad un uovo con in testa un cappel lo e ai piedi due scarponi, tanto sembrava pieno.
Il suo passo era leggero, a dispetto degli scarponi pesanti, e sembrava ondeggiare sotto il peso della sua pancia prominente ma non dava mai la sensazione di cadere. Aiutato dal bastone e da un baricentro basso si muoveva allegramente a dispetto della sua notevole rotondità. Ad ogni passo sembrava stesse danzando, un balletto a rallentatore per farsi ammirare.
Era impossibile non notarlo e, in qualche modo, ammirarlo se non proprio esserne affascianti.
Il giorno dopo lo abbiamo rivisto a Portomarin. Il nostro stupore risultò essere totale. Era lui o un sosia? Era un’attrazione turistica per osservatori molto attenti o cos’altro? Però la fame era tanta e la nostra curiosità si spense subito.
Ci venne incontro il mattino successivo. Eravamo dentro un tunnel di alberi ed in fondo, dove la luce filtrava, all’improvviso apparve la sua sagoma. Lo riconobbi subito: impossibile non notare quell’andatura. Anche se in lontananza lo fotografai e lo registrai. Volevo essere sicuro che fosse reale. Lo incrociammo e ci scambiammo l’augurio di un buen camino. Lo incontrammo di nuovo lungo un cavalcavia sopra un’enorme autostrada in costruzione e poco dopo davanti ad una cappella dove ci eravamo fermati per farci timbrare le credenziali. Era troppo forte la curiosità per non tentare un incontro.
Era francese e viaggiava con altri cinque compagni. Lui portava avanti la macchina, la parcheggiava e poi tornava indietro per ricongiungersi a loro. Così facendo percorreva il cammino in ritorno e andata. Parlava lo spagnolo ed amava l’Italia: paese che aveva attraversato. Si è rivelato un uomo di cultura e un conoscitore del cammino di Santiago, lo aveva percorso più volte. Tirò fuori dalla tasca delle pietruzze a forma di croce, perfettamente levigate, le lavorava lui. Ci spiegò come inserire la doppia corda e come portarli al collo. Ce ne fece dono senza chiedere nulla in cambio. Era il suo modo di dire grazie alla nostra gioia di conoscerlo.
Camminò con noi una ventina di minuti e poi si congedò: doveva andare alla ricerca dei suoi amici.
Pochi chilometri più avanti notammo una macchina co n targa francese parcheggiata sul ciglio di una strada, doveva essere la sua.
Io non l’ho più visto ma qualche giorno dopo ad Arz uà, Flavia, alla ricerca di un tabaccaio, lo aveva visto seduto su una panchina in compagnia di una bella signora.
Ci è rimasta la curiosità di sapere se quella donna fosse la sua compagna o una semplice amica. Ma al di là della curiosità quel Dotto Satiro ha rappresentato la variante umana dei due cani che ci avevano accompagnato. In entrambi i casi sono stati presenze che hanno scaldato il nostro cuore.
Se non si è nati montanari l’idea di bosco è sostanzialmente quella di un luogo misterioso dove un complicato intreccio di tronchi, rovi, foglie secche e penombra incutono timore, dove ci si può imbattere in qualcosa di spiacevole. Un luogo da affrontare con cautela. Idea di chi abita la città, ovviamente.
Comunque la cittadina idea mi ha sfiorato una sola volta lungo le decine di chilometri di bosco attraversati. È stato nel trasferimento da Triacastela a Samos; percorso lungo il quale abbiamo goduto della compagnia dei due cani randagi.
Ho affrontato quell’abbraccio di verde ed umido con il sorriso sulle labbra. Due cartelli ci hanno fatto ridere di gusto: il primo indicava un pericolo di galli; il secondo era il divieto di defecare. Inoltre, poco dopo essere entrati nel bosco, abbiamo recitato il nostro mantra e l’ambiente ha amplificato il nostro star bene. Eppure dopo poche centinaia di metri l’ambiente si è tramutato in un sali e scendi, a volte molto ripido; il sentiero spesso veniva imbrigliato da costoni di roccia ed alberi anneriti dal fuoco; l’acqua percolata dalle rocce a monte stagnava sotto i nostri piedi. In quel contesto ho provato una piccola sensazione di smarrimento: non proprio paura ma piuttosto un senso di inquietudine. Era la vista occultata che mi metteva soggezione. Arrancare in salita dove la vista si infrangeva contro un muro verde a non più di venti metri dall’ultima curva affrontata mi portava a chiedermi: e dopo? Cosa ci sarà dopo? E per venti minuti quella domanda mi ha assillato finché ci siamo ritrovati, io e Lucia, su quella strada i cui rumori avevamo percepito molto attutiti ma che non eravamo riusciti ad associarli ad alcun mezzo meccanico.
Inutile nascondere che ho provato un certo sollievo quando la vista ha potuto spaziare in ogni direzione, anche se appannata da goccioline di rugiada, e quel leggero malessere ha cessato di darmi fastidio quando ho potuto riprendere il controllo sull’ambiente intorno. Non siamo abituati all’ignoto, non siamo capaci di trasportare il nostro corpo attraverso spazi delimitati dal capriccio della natura.
Era il primo vero bosco che attraversavo. La salita al O Cebreiro era stata nel bosco ma spesso tagliava il fianco della montagna e ci offriva una vista suggestiva sulla valle sottostante.
Fermi sul ciglio della strada, in attesa che spuntassero Flavia e Michele, mi sono interrogato sul perché di quell’inquietudine. Davanti avevo un quadro dipinto con diverse tonalità di verde pastello. Ogni tanto quella distesa verde veniva occultata da una nebbia molto diversa da quella osservata in cima al O Cebreiro. Quei luoghi mi sembravano angusti: valli strette e freddo umido.
Lentamente lo sforzo della salita è scemato, il respiro è tornato normale ed una riflessione si è fatta strada: il bosco angusto, la fatica della salita, la vista non proprio limpida di quel panorama parzialmente occultato altro non era che la metafora del mio essere. La malattia era il bosco, la fatica era la cura e la vista annebbiata era l’incertezza che ogni tanto assale chi affronta un ostacolo difficile. Se ciò che vedevo era il riflesso di me stesso, dovevo cambiare la prospettiva, dovevo trasformare il veleno in medicina. E avvenne che sussurrando Nam Myoho Renge Kyo, affinché solo il mio cuore ascoltasse, improvvisamente la parte nascosta smise di imporsi alla mia attenzione. Solo ciò che riuscivo a vedere divenne l’unica cosa interessante.
E così un pensiero si impossessò di me: “Nel silenzio del bosco ci si può perdere ma anche ritrovarsi. L’importante è avere la consapevolezza che dal bosco si può uscire sempre”.
Più ci avviciniamo a Santiago e più il bosco diven ta la sede del nostro cammino. Non più alberi contorti o anneriti dal fuoco ma giganti che ci sovrastano. Non più tracciati bui, irti e dalla visuale limitata ma viottoli illuminati dai raggi del sole filtrante, sentieri che si snodano tra alberi dritti e allineati come soldatini. Sono i boschi di Eucalipto, che accolgono i pellegrini già dopo Melide.
Camminarci dentro è come fare un aerosol prolungato e benefico. L'aroma è così intenso da stordirti. Uno stordimento piacevole, un'inebriante profumo che ti circonda, ti penetra e si protrae nel tempo senza darti alcuna tregua. Giganti buoni che si erpicano per decine di metri verso l'alto.
A dispetto della loro mole sono compagni di viaggio discreti. In loro presenza ci si sente al sicuro. Non occultano la vista, non oscurano il sole ma producono un rifugio tonificante. In loro presenza è facile trovare una cadenza di cammino più decisa e spedita, poiché il terreno è più compatto e l'acqua è meno invasiva.
Non sa il pellegrino che è proprio la mancanza dell'acqua l’elemento che indica la dannosità di questi alberi per l'ambiente. Alberi non autoctoni, importati dall'Australia, adattatosi molto bene ma bevitori eccezionali fino al punto di compromettere l'ecosistema in cui vivono, un vero predatore vegetale. Non sempre ciò che ristora è amico dell'uomo.
Oltre gli aspetti ambientali, natura quasi incontaminata nonostante le opere viarie imposte dal progresso, ciò che mi ha colpito molto è stata l’architettura sacra.
Lungo tutto il cammino, lontano dai grossi agglomerati urbani, si possono trovare piccole chiese dalle mura austere ed imponenti. Sembrano tante cattedrali in miniatura e come le cattedrali celano oggettistica, dipinti e statue di un certo fascino e di sicuro valore storico. Molti interni sono ricchi di altari e pale incastonati in cornice pesantemente barocche.
Disegni sgargianti, ritratti di santi e madonne sono molto distanti dai loro analoghi allocati nelle chiese più grandi delle cittadine.
Ho avuto l’impressione che questi piccoli luoghi di sosta dovessero rappresentare, per il pellegrino, solo un momento di ristoro, di gioia, di sprone a proseguire. Nelle chiesette che ho visitato, quasi tutte ubicate lungo il ciglio delle strade, nulla demanda alla penitenza, al dolore, alla mortalità del corpo. Immagini molto distanti dalle austere figure dell’Abbazia Benedettina di Samos e della stessa Santiago o di quelle lungo il percorso per Finisterre. Forse, in quest’ultime, il pellegrino, giunto in un luogo dove la sosta sarebbe stata più lunga o il cammino avrebbe avuto fine, veniva invogliato a meditare sulla sua natura e sul suo rapporto con la sacralità. Alleviato dalle fatiche del cammino si sarebbe potuto immergere di nuovo nel dolore di una vita vissuta senza precetti e quei ritratti scuri, tetri, spaventosamente severi fungevano da monito.
Come nelle piccole chiese di campagna in molta parte d’Italia anche queste sono circondate da minuscoli cimiteri. A differenza di quelli Italiani non presentano alcuna cinta muraria. Molte tombe sono situate lungo il ciglio della strada e non offrono nessun segno a ricordo di chi e da quanto tempo in quella tomba dimora. Tombe antiche in pietra che non sfigurano accanto alle più moderne rivestite in mar mo. L’assenza di lampade votive, fiori e ammennicoli vari rende questi luoghi un tutt’uno con il cammino: non c’è distacco, non è altro.
Se in una locanda ci si ferma per rifocillare il corpo, in questi posti si ci ferma per rifocillare lo spirito. In ultima istanza questi posti rappresentano la meta ultima di tutti.
Alcune tombe, quelle appartenute o che appartengono a famiglie ricche, mostrano una verticalità esagerata per la base su cui poggiano e ricordano molto gli Horreos, granai la cui base poggia su alti pilastri per tenere lontani gli animali. Anch’essi sono stretti ed alti, con il tetto spiovente e con parete sottilmente fessurate per far circolare l’aria ed ossigenare i cereali stoccati. In cima una croce denota la gratitudine verso il divino per il raccolto ottenuto.
Come le tombe la dimensione e la qualità del manufatto denota il censo del possessore.
L’H2O è la molecola principale di tutta la Galizia. In ogni sua forma: liquida, solida , gassosa.
Io non so se fosse la normalità, ma vedere strisce bianche di neve su pendii non molto elevati a fine maggio è uno spettacolo a cui non ero abituato. Tuttavia quella visione non mi ha mai prodotto apprensione anche se sapevo che dovevamo attraversare passi a 1300 metri di quota.
Da dove siamo partiti, Ponferrada, fino a La Laguna de Castilla è territorio appartenente alla regione di Castiglia e Leon ma già subisce l’influenza della Galizia ed infatti siamo stati accolti, già il primo giorno, da uno scroscio di pioggia tanto violento quanto breve. Immediatamente, dopo aver smesso di piovere, il sole ha trasformato quell’acqua in vapore facendo appiccicare i capelli sulla nuca e le magliette al corpo.
Quelle molecole liquide che tanto mi avevano infastidito le ho ritrovate alcuni giorni dopo spostandoci da Trabadelo a La Laguna de Castilla. Non era acqua che cadeva dal cielo ma che scorreva giù dalle pendice ad ingrossare tor renti e fiumi.
Ancor prima di giungere a Trabadelo, subito fuori Villafranca del Bierzo, il tracciato del cammino ha preso a scorrere tra la strada ed il corso di un torrente. Per tutto il viaggio in quella valle stretta e tortuosa il nostro corpo si è trovato leggermente protratto in avanti per compensare il peso della zaino e meglio affrontare la leggera ma costante salita. In ogni punto lungo il cammino alla nostra destra scorreva in parallelo una strada dove le macchine si muovevano lentamente tra una curva e l’altra. La velocità era così bassa da rendere la loro presenza quasi trascurabile; sopra le nostre teste troneggiavano le corsie di un’autostrada che ci facevano ombra per diverse centinaia di metri per poi sparire nella
pancia di una montagna e ricomparire sopra di noi alla svolta dell’ennesima curva; alla sinistra ci sovrastava minaccioso un versante ripido della montagna ricoperto da una vegetazione lussureggiante alla cui base si faceva strada un corso d’acqua così ansioso di giungere a valle da risultare irrispettoso della natura che lo aveva generato e che lo stava facendo crescere.
Quell’acqua liberava una forza così maestosa da lasciarmi interdetto. Nessuno ostacolo resisteva al suo passaggio. I tronchi, il fogliame e tutto ciò che cadeva dal pendio non riusciva a depositarsi nel letto del torrente e con violenza veniva scaraventato sulle rive o trasportato sempre più giù dove l’impeto dell’acqua si sarebbe domato. Gli accatastamenti erano ben visibili ed in quei punti la rabbia dell’acqua era tale da aumentare la propria velocità. Fenomeno idraulico ben conosciuto, ma a me piaceva pensare che con un atto di sdegno il fiume in quei punti decidesse di aumentare la velocità della propria corsa per evitare contaminazioni.
In tutto quel turbinio da quel nastro di colore cangiante saliva una frescura lieve che mitigava il nostro sforzo. Quel serpente d’acqua ripeteva come un mantra il suo gorgogliare inglobando altra acqua che scendeva dal pendio, il suo sciabordare contro le rocce, il suo lasciarsi cadere in centinaia di salti. Era ipnotico il rumore che produceva e spesso si impossessava di me imponendomi la cadenza della marcia.
Solo il saluto di “Buen camino”, pronunciato da coloro che viaggiavano più veloce, mi riportava alla consapevolezza di ciò che stavo facendo e mi faceva godere delle sensazioni che provavo.
E l’acqua si è trasformata in un lago galleggiante quando dalla cima del O Cebreiro ci siamo diretti verso Triacastela.
Siamo partiti con il buio da La Laguna de Castilla per affrontare gli ultimi duecento metri di dislivello che dovevamo scalare per giungere in vetta al monte. Il sole, sorgendo alle nostre spalle, ci diede una visione nitida dei profili dei monti che delimitavano la regione di Castiglia e Leon da quella della Galizia. All’orizzonte ancora piccole lingue di neve brillavano appena sfiorate dai pallidi raggi del sole. L’aria pungente della mattina mitigava lo sforzo che stavamo compiendo: fare un paio di chilometri in salita senza adeguato riscaldamento può risultare molto fastidioso. L’aria rarefatta ci ossigenava a tal punto da indurci a sbagliare sentiero, per fortuna solo per poche decine di metri.
Un ceppo, fotografato come una star anche se imbrattato con schifezze vandaliche, stava ad indicare il limite tra le due regioni: eravamo ritornati sul sentiero giusto.
In cima una visione stupenda si impossessò dei nostri occhi. Appena usciti dal delizioso borgo e prima di immergerci lungo il sentiero che si snodava a metà costa tra la cresta della montagna, ricalcandone pedissequamente il profilo, e la strada sottostante un lago enorme di vapore si svelò per tutta la propria maestosità. Un lago galleggiante dai contorni sinuosi si incuneava tra i fianchi delle montagne. Tanti isolotti si ergevano da quel lago, in numero così rilevante da assumere le sembianze di uno dei tanti arcipelaghi disseminati tra la Grecia e Creta. Da quel lago si sprigionavano lievi colonne di vapore che rendevano indistinto il proprio profilo. Una distesa lattea che da lì a poche ore si sarebbe dissolta ed avrebbe dato la possibilità, al viandante, di scrutare a fondo gli anfratti più angusti, le valli lussureggianti, forse anche il turbinio e lo spumeggiare delle acque torrentizie.
Dieci minuti è durata la mia estasi. Altri 22 chilometri ci aspettavano ed altre due volte avremmo dovuto scavalcare i 1300 metri in quella giornata. Era meglio muoversi.
Se gli aspetti di toeletta e di evacuazione delle scorie corporali sono importanti e per certi aspetti complicati – la natura è bella ma molto scomoda, soprattutto se non offre ripari dagli occhi di altri pellegrini –, il cibo diventa elemento principe.
Il cibo, nella sua accezione più ampia, continua ad essere, anche durante il cammino, l'elemento catalizzatore di ogni convivialità.
Già dal primo mattino rappresenta il biglietto d'ingresso alla giornata. Davanti ad un caffè e a un dolcetto si diventa più loquaci e socievoli e la voglia di camminare, di andare avanti si fa più pressante. E cosa dire del languore che assa le, il pellegrino, dopo appena due ore di cammino? Davanti ad una fetta di pane tostato e ad un succo di arancia tutto diventa più abbordabile, anche la fila davanti all'unico ba gno disponibile – quando i tuoi bisogni sono di ben altra urgenza – ti sembra sopportabile e foriero di ben altro godimento quando conquisterai l'agognata tazza di ceramica. Ed il rito si ripete due o tre ore dopo quando non si sa se si ha veramente fame ma si percepisce la bellezza di sedersi con gli amici e condividere le tossine accumulate. Ed anche mentre si mangia ci si interroga su dove e cosa mangiare quando si sarà giunti a destinazione.
E se capita di non trovare alcuna locanda dove cenare ecco che la magia del cibo si irradia per ogni dove in tutto l'Albergue che offre ospitalità. Preparare il cibo insieme ad altri che fanno la stessa cosa senza mai essere invadenti e senza sentire il bisogno di rimproverare chi non ha pulito perfettamente le posate o le pentole che si dovranno utilizzare è qualcosa di unico che solo nella condivisione di un cammino si può provare. Offrire il cibo o riceverne annulla ogni barriera linguistica e culturale, nonché religiosa. Il cibo rappresenta tutto ciò che sei in quel momento. C'è molta spiritualità nell'atto del mangiare in comunità.
Quando si può si va in un ristorante. Asettico o popolare è sempre privo della parte corporale, e quasi sempre spirituale, del convivio. Si mangia e si dà conto del prezzo, della qualità, del gusto. Non si sa nulla né di chi ti serve né di chi consuma un pasto nel tavolo accanto. Ma, anche se in aperto contrasto con la convivialità tra pellegrini, anche un ristorante è cammino poiché ciò che offre è diversoda quanto altri ristoranti offriranno man mano che ci si avvicinerà a Santiago, ed anche oltre verso Finisterre. Santiago, come Assisi, può essere considerata, a ragione, una delle captali del turismo religioso. Ma se Assisi rappresenta una religiosità più meditativa, statica, più raccolta intorno ai suoi luoghi sacri – a testimonianza della vita di San Francesco – Santiago rappresenta una religiosità più fuggente, dinamica, più accondiscendente verso le persone che si trovano agli sgoccioli di una esperienza. Non c'è testimonianza diretta della presenza delle esequie di San Giacomo. Ma questo non ha importanza: Santiago è San Giacomo e San Giacomo è il cammino.
Ed è, forse, questo il vero aspetto religioso o almeno spirituale. La figura di San Giacomo aleggia dappertutto lungo il cammino. Il pellegrino credente la sente dentro a tal punto da identificarsi completamente con essa, il pellegrino non credente la percepisce e questo è sufficiente per accettarla e rispettarla.
Chi giunge a Santiago, sia se ha percorso gli oltre 800 chilometri o ne ha percorso solo una parte, si trova nella condizione di chi sa che entro poche ore deve tornare al mondo antico, quello fatto di quotidianità. In queste poche ore il pellegrino si trasforma in turista e come tale si comporta.
Quando si è giunti all'ultimo giorno di vacanza si fanno i conti in tasca e ci si concede l'albergo più dignitoso, il ristorante più empatico , i ninnoli da portare a parenti ed amici. È come se tutta l'esperienza del cammino venisse gelosamente conservata e nascosta a occhi indiscreti. Ci si ripromette di farne un altro di cammino e intanto ci si prepara al ritorno alla normalità.
Il cammino lo hai sentito dentro, è un fatto personale ed interiore. Santiago non ti offre nulla di tutto ciò. È una separazione netta tra ciò che sei stato per un certo numero di giorni e ciò che sei ora.
L'approccio alla città di Santiago ha qualcosa di diverso dagli altri luoghi attraversati e non
è solo il lungo camminamento per giungere alla Cattedrale. È il monumento costruito per omaggiare quel Papa che ha rivitalizzato il cammino; è lo scheletro di quell'enorme brutto complesso di costruzioni basse che hanno accolto i fedeli per la visita di quel Papa e che adesso sonnecchia, consapevole del proprio lento declino di fronte all'invasione delle erbe ed al silenzio che staziona tra una costruzione e l'altra; è il dedalo di autostrade che circonda la città; è la foto che ti fai sotto il cartello che testimonia che a Santiago ci sei realmente arrivato; è l'aumento vertiginoso del costo della vita.
Santiago è la meta del pellegrino divenuto turista: poca spiritualità, molto materialismo. Un'intera comunità vive su quel pellegrino divenuto turista ma questo non disturba nessuno. Anzi il pellegrino gode di tutto ciò. Dopo giorni di fatica più o meno reale ci si può rilassare ed apprezzare gli agi di un'esistenza più confortevole.
Ma prima di rilassarsi occorre: cercare il luogo dove richiedere la Compostela; visitare il Duomo e, per chi è credente, abbracciare le spalle del Santo.
Se si è fortunati si può assistere alla cerimonia del Botafumeiro. Un tempo necessario a purificare l'aria dai germi e dagli odori dei pellegrini, oggi necessario a riempire di video e di foto gli smartphone dei pellegrini.
Dove il ceppo indica km. 0 ha fine il cammino.
Solo pochi pellegrini si spingono fin dove la terra, con un lungo promontorio maestoso, sovrasta il mare e di esso si adorna come una collana di smeraldi azzurri con riflessi argentei di un candore accecante.
Avrei voluto arrivarci a piedi in quel posto, almeno gli ultimi chilometri, ma non è stato possibile. Ci siamo arrivati in macchina, come turisti, come pellegrini stanchi, come umani con la mente già rivolta alla città. È stato bello lo stesso e ho compreso ed accettato lo sguardo di disappunto di quegli audaci che hanno proseguito fin dove la terra gli ha consentito di farlo. Nell’ascoltare il mare ho recitato, in silenzio, il mio mantra. Nam Myoho Renge kyo è scaturito dal mio cuore e mi ha cullato, mi ha avvolto, mi ha parlato. In quel luogo il mio stato vitale e la mia spiritualità si sono fusi in un’unica cosa raggiungendo una intensità raramente provata.
Il sole era alto e faceva scintillare tutta la distesa di acqua che si apriva ai mie occhi. Una distesa di luce che non offendeva gli occhi e anche senza occhiali da sole potevo ammirarla e godere della sua bellezza. Quella lingua di terra, la sua verticalità sull’infinito liquido mi faceva girare la testa. Erano vertigini di gioia, di commozione e nello stesso tempo di rispetto. Non ho osato sfidare quella verticalità, non ho osato disturbare con i mie passi incerti il rumore dell’acqua e del vento. Con lo sguardo fisso in quell’infinito splendente ho ripensato all’acqua che mi ha circondato ed accompagnato lungo il cammino. Chissà se era già giunta al mare e magari adesso mi stava osservando aspettandosi un riscontro di gratitudine.
“Come potrei ritrovarti?” mi sono chiesto mentalmente. “Non posso!” mi sono risposto in modo categorico. " Eri così rumorosa, sempre presente, sempre sollecita a spronarmi, a lenire le mie fatiche; eri così tumultuosa, spumeggiante, irrequieta, sempre pronta ad invadere i nostri spazi, fino al punto di farti calpestare; eri i colori del bosco che attraversavi, della strada che costeggiavi, del sentiero che inondavi, dell’altra acqua che incontravi. Ora sei discreta, raggiante ma indistinta. So che ci sei. Con gli occhi non ti trovo, ma con il cuore ti sento”.
E dove la terra incontra il mare un’antenna si proietta verso il cielo e dal faro due trombe si protraggono verso l’infinito. Oggetti per la navigazione, ma a me piace pensare che quell’antenna e quelle trombe siano gli strumenti per proiettare in alto verso il cielo e davanti verso il mare immenso la felicità accumulata lungo il cammino. Quel tunnel gioioso era partito dai Pirenei ed ora per non interrompersi si protraeva verso l’infinito.
Ad una eventuale domanda “Perché hai fatto il cammino?” non saprei cosa rispondere. Ma forse una risposta non esiste e la domanda risulta essere pleonastica. Motivi religiosi? Non di certo! Spirituali? Forse! Sfida con se stesso? Neanche a parlarne! Anche la domanda “Cosa ti ha lasciato?” o le affermazioni “I l cammino ti lavora dentro”, oppure, “lungo il cammino ritrovi te stesso” rappresentano luoghi comuni. Ogni esperienza ti lascia qualcosa, ti costringe a guardarti dentro e ti lavora in profondità a tua insaputa.
La domanda più corretta è “Sei stato bene durante i l cammino?”. La mia risposta è “Si, sono stato bene”. E quando si sta bene tutto va a meraviglia, tutto è più accessibile. Nel Buddismo si direbbe “Ho uno stato vitale alto”. Passati i primi giorni ho sempre avuto uno stato vitale alto.
Ciò che nella vita di tutti i giorni non fai è quello di avere un confronto continuo, istante per istante, con tutto ciò che incontri muovendoti. Questa instabilità visiva la puoi trovare ogni qual volta decidi di muoverti su percorsi non conosciuti, ma ciò che rende unico il cammino
è il numero impressionante di punti di vista poiché il numero di persone che guarda la stessa cosa in modo diverso è altissimo. Volendo fare una forzatura si potrebbe dire che lungo il cammino si intersecano così tante opinioni tutte così convintamente rispettose una dell'altra da poter affermare “Il cammino è l'espressione massima di democrazia possibile”. Anzi, si potrebbe definire il cammino come “La democrazia compiuta”.
Forse è questo che fa del cammino una esperienza unica e ti riempie di gioia ogni volta che ne parli.
Sul pullman che ci porta a prendere un aereo, lungo la stessa autostrada che ci ha regalato la sua ombra vicino a Trabadelo guardo in basso e vedo uomini che avanzano sulla strada da noi e milioni di pellegrini già percorsa. Li invidio perché stanno vivendo un’esperienza unica. Li sento vicini. Sento il rumore dei miei bastoncini che cadenzano il passo, il mio cuore battere, il mio sangue pulsare e i miei muscoli tesi per lo sforzo. Per un attimo sono di nuovo giù, lungo la strada. Poi una galleria interrompe la visione. “Coraggio fratelli. Buen camino”.