TERRA DEL FUOCO E PATAGONIA
premessa
Il mio amore per la Patagonia è nato sui libri; è nato senza aver visto neanche una fotografia, con idea molto approssimativa della geografia dei luoghi, tale da farmi confondere, fino allo sbarco a Ushuaia, la Patagonia con la Terra del fuoco
I miei occhi erano stati riempiti dai racconti dei miei scrittori sudamericani preferiti, a cominciare da Osvaldo Soriano, dall’idea di un territorio estremo e sconosciuto
Alla fine l’impresa è arrivata, ed il primo viaggio, oltre i confini dell’Europa e del bacino del mediterraneo, mi ha portato alla fine del mondo.
Quello che ho visto era molto di più di quello che avevo immaginato; non è stato possibile vedere tutto, una parte delle immagini sono ancora nella carta dei miei libri preferiti, ma questo fa parte di un desiderio ancora da esaudire
Ho capito cos’è la Patagonia, la sua pianura in apparenza desolata, le montagne sullo sfondo, l’assenza di città e le strade che sembrano perdersi nel nulla.
Abbiamo visto la fine del mondo, anzi, abbiamo capito di essere alla fine del mondo..
Da qualche tempo, alle fine di ogni viaggio, riporto in un breve racconto le impressioni; stavolta non potevano rimanere confinate in poche righe, e così ho superato le 10 pagine.
Non ho raccontato il viaggio, non è un diario di bordo; ho cercato di ricostruire le emozioni, perché possano essere ritrovate ogni volta che qualcuno legge queste pagine
Da (quasi) gli Appennini a (più o meno) le Ande
Bologna , da( quasi) gli Appennini
Valìgia: Contenitore per riporvi il vestiario e altri oggetti personali da portare con sé in viaggio, in forma di parallelepipedo oppure a soffietto, più o meno rigido, di cuoio, tela, stoffa impermeabilizzata, cartone telato, materiali plastici e anche metallo, con coperchio apribile ma non staccato, e munito di un manico (o di due maniglie che si uniscono in modo da poter essere afferrate con una mano sola), talora, se poco voluminoso, con tracolla (i modelli più grandi sono dotati, a volte, di due rotelle, per il trascinamento a mano)
La definizione che dà la Treccani del termine “valigia”, non è, non può essere quella della valigia che abbiamo preparato per il viaggio in Patagonia, che è più un incrocio fra la coperta di Linus, a cui aggrapparsi nei momenti di panico e la borsa di Mary Poppins, contenitore in cui tutto trova posto.
Nella valigia, anzi, nelle valige, ci deve essere tutto quello che ci può servire, anche se non è chiaro cosa ci possa servire veramente.
A complicare il tutto, il pensiero che il bagaglio a mano deve essere anche il deposito di salvataggio di quanto possa eventualmente essere perso in un eventuale, possibile, sfortunato scambio nell’aeroporto di San Paolo, e quindi contenere il materiale tecnico (scarponcini, pantaloni e materiale da trekking vario) che, si presume, debba essere utile, anzi, indispensabile per la Patagonia dove, si narra, nella stessa giornata possono alternarsi le quattro stagioni.
Ma è evidente che nel bagaglio a mano deve trovare posto anche il cambio di vestiario leggero, perché in quella parte del nuovo mondo ci si arriva che è piena estate, mica inverno come qua fuori, quindi magliette a maniche corte, pantaloni leggeri, da indossare velocemente in aeroporto.
Ma il puzzle è completato dal fatto che devono trovare posto anche le ciabatte, il cuscino e quant’altro possa renderci più comode le dodici ore di volo. E le medicine!!
Dato che Mary Poppins la sua borsa non ce l’ha voluta prestare, è una battaglia all’ultimo oggetto, all’ultimo indumento; in soccorso arriva la borsa da viaggio, che dovrebbe contenere solo documenti, ma in cui vengono dirottate ciabatte, libri, medicine e altro in ordine sparso.
La partenza per il viaggio è un viaggio anch’esso, a più tappe: da casa alla Casa della Pace, dove ci aspetta l’autobus, all’autogrill per un pranzo veloce, e poi, finalmente, all’aeroporto da cui comincerà il viaggio.
Anche l’attesa fa parte del viaggio, e, in attesa del check-in ,comincia l’ultimo appello alle cose messe nel bagaglio, e si passa all’ultimo veloce passaggio dal bagaglio di stiva a quello a mano, alla borsa da viaggio. E viceversa
La partenza è una corsa a tappe attraverso l’aeroporto, fra controllo del biglietto, dei bagagli, dei passaporti e attese per il passaggio successivo. Fino all’imbarco
Siamo tutti nella stessa fila in aereo, e la prima impresa verso il nuovo mondo da affrontare, è riuscire a dormire per poter essere pronti alla mattinata che ci aspetta dall’altra parte del mondo.
Anche la notte del viaggio è una corsa a tappe: la cena, consumata mantenendo in equilibrio instabile il vassoio, le posate, il bicchiere pieno, la coperta appena tirata fuori dal cellophane, poi il tentativo di continuare… un libro sfogliato distrattamente ma indispensabile (In Patagonia, di Chatwin), il passaggio ad un film, mentre si tenta di aggiustare dietro la testa il cuscino, infilare le mascherine per gli occhi per eliminare quel poco di luce che è rimasta nella cabina dell’aereo.
Una lunga battaglia, condotta da ciascuno in modo più o meno vittorioso, fino all’arrivo del caffè, lo sbarco a San Paolo, un veloce cambio per reggere ai quasi 30 gradi di differenza fra (quasi ) Appennini e (vicini alle) Ande ed un nuovo volo da raggiungere attraversando quasi tutto l’aeroporto, con la consueta corsa a tappe fra file ed attese.
…a Buenos Aires, (quasi ) le Ande
Finalmente Buenos Aires, non abbiamo perso nessun bagaglio, ad accoglierci la nostra guida e l’autobus che ci porta verso il centro della città.
Arrivano le navi
I gradini che portano ai piani superiori sono consumati; sotto i gradini, sotto le conche scavate dal passaggio pesante di migliaia di piedi, gli occhi
Occhi che ricordano quanti fra queste mura hanno avuto la prima accoglienza in questa parte del “Mondo Nuovo”; gli occhi, sui gradini, rimandano ai piedi e alla loro fatica.
Sono milioni di piedi; fra il 1891 e il 1914 più di 8 milioni di piedi, 4 milioni di migranti che sono passati per queste stanze, e di questi 2 milioni erano italiani. I migranti, nel 1895, costituivano il 25% della popolazione
Il luogo di questi gradini oggi è il Museo dell’immigrazione, nel secolo scorso era l’Hotel des Immigrantes, l’Ellis Island in terra argentina,
“El remanido concepto de quel los argentinos descendemos de los barcos, en lugar de ostentar una historia propria y milenaria, fue utilizado a veces como un desmerito cuando, per el contrario , deberia enourgullercenos”
In altre parole, ed in altra lingua, il messaggio è che non è un demerito discendere dalle navi piuttosto che da una storia millenaria, anzi
Scesi dalle navi, passati dall’Hotel des immigrantes, i migranti si sparsero nella città, costruendo case, quartieri, e divennero i portenos, quelli del porto, quelli che(di) scendevano dalle navi, quelli che sarebbero diventati i nuovi abitanti di Buenos Aires .
Dalle finestre del Centro di Accoglienza il panorama delle nuove costruzioni della zona del porto; affacciati sul Rio della Plata palazzi in vetro e cemento, residenze di lusso, uffici, simboli di ricchezza che scacciamo il ricordo delle origini
Uno dei punti di arrivo dei portenos fu il quartiere della Boca, che da loro fu trasformato, diventando il quartiere dei marinai genovesi, con le case costruite con le lamiere sbarcate dalle navi
Per questo, per la loro provenienza, gli abitanti della Boca vennero e vengono chiamati Xeneizes, Genovesi, e il loro orgoglio fu tale che su quelle lamiere fondarono la loro nuova repubblica marinara, la Republica indipendiente de la Boca, ancora evocata dai murales nella via del “caminito”
Nel 1895 i piedi sbarcati dalle navi erano talmente tanti che su 38mila abitanti del quartiere solo 2.500 erano di origine spagnola
Le lamiere delle case sono ancora di tutti i colori; i discendenti di quei marinai popolano, nella mia memoria, i racconti di Osvaldo Soriano, tifano per il Boca Juniors e sognano ancora Maradona.
E, per estensione dell’originale provenienza, quasi un marchio di origine, piuttosto che peccato originale, ancora adesso tifosi del Boca, tutti, vengono chiamati Xeneizes
Xeneizes ve ne sono anche, involontariamente ed in incognito, nella nostra memoria di bambini; Marco il piccolo protagonista di Dagli appennini alle Ande, veniva da Genova e, sbarcato a Buenos Aires, proprio qui, dalla Boca, nella comunità genovese, genovese fra gli Xeniezes, comincerà la ricerca della sua mamma.
Anche molti degli angeli che popolano il cimitero della Recoleta discendono dalle navi; hanno il volto delle mogli, delle figlie degli scalpellini arrivati con le navi e che incisero la pietra.
Scalpellini arrivati da lontano con i loro ricordi, magari dalla Puglia, come il nonno e lo zio di Francesca; ritornati poi a casa, hanno continuato a parlarsi fra di loro in spagnolo, segno di antica complicità, e nel lungo tempo di lontananza era stato il volto delle loro donne, riprodotto agli angoli delle cappelle, a tener vivo il ricordo
Fuori dalla Boca qualcuno dei genovesi/Xeneizes è arrivato anche in pieno centro, in Avenida Corrientes, la broadway di Baires, con i suoi teatri, le sue librerie e le sue pizzerie; la più pizzeria grande, fra le più famosa e rinomate è la pizzeria Guerrin.
Fondata da immigrati genovesi, la pizza, preparata con “muzzarela” è una pizza gorda, la mas gorda.
Con la pizza” chica” ci si mangia abbondantemente, con quella grande, incautamente ordinata dal turista di passaggio, la resa incondizionata alla pizza, a metà dell’impresa, è inevitabile.
Anche perché la mozarella è a doppio strato, e la pasta della pizza è insaporita da una quantità d’aglio priva di limiti e che trova, forse, la sua spiegazione nel ricordo del pesto.
L’avenida Corrientes, piena di teatri, con due spettacoli, alle 20 ed alle 23; gli spettatori fanno la fila per entrare, di lato, accanto all’ingresso, per terra sui cartoni, gente che dorme.
Lungo le avenidas, sotto gli alberi bottiglia, gonfi d’acqua, famiglie che si preparano a passare la notte; famiglie di cartoneros, che passano, reali, accanto al turista distratto, con il carico di cartoni e fatica quotidiana.
La memoria sul marciapiede
La storia ufficiale, quindi, quella che finisce sui libri, gli argentini, la grandissima parte degli argentini se la sono portata con le valige di cartone dal vecchio continente e hanno continuato a scriverla sul libro della nuova patria.
Le tracce della storia, in una città, sono nei palazzi, nelle strade, nelle insegne dei negozi; nelle nostre città anche sotto la pavimentazione delle strade, nelle cantine, tracce di storia antica e quotidiana, tracce di anni, di culture, di sogni.
La città di Buenos Aires non ha tracce di storia che precedano i portenos; gli Inca non sono passati di qua, ed è rimasto poco anche di spagnolo.
Si affaccia sulla plaza de Mayo un edificio che risveglia i miei ricordi; ci penso un attimo, poi mi aspetto di vedere Don Diego De la Vega tramutarsi in Zorro, saltare sul cavallo, che si impenna…
No, Don Diego non c’è, ma quella sembra davvero casa sua; è l’ultima reliquia del passato coloniale di Buenos Aires
Plaza de Mayo si apre di fronte alla casa Rosada, sede della presidenza della repubblica argentina; fra la Casa Rosada e la piazza una cancellata, a stabilirne le distanze
Tutti i giovedì qui si raccolgono le madri e le nonne di Plaza de Mayo, con il loro fazzoletto bianco, in attesa, in protesta, in ricordo: sperano ancora?
La storia di quegli anni non è nei palazzi, nei monumenti: è sotto i nostri piedi tracciata per terra.
In Plaza de Mayo l’angolo delle madri, delle nonne è ricordato da un fazzolettone, il loro simbolo, dipinto su un angolo della piazza.
Il ricordo di questi figli e dei nipoti, dei desaparecidos, appare nelle targhe, incastrate nei marciapiedi, che ricordano la loro scomparsa nell’orrore di quegli anni; ricordano il nome, la giovane età, il luogo in cui erano stati visti l’ultima volta. Rapiti nell’angolo della scuola di Tango, davanti all’università. Scomparsi. Desaparecidos
In un altro angolo di Plaza de Mayo stanno i reduci della guerra delle Malvinas, la loro protesta; il loro destino, il loro ricordo, è legato a quello dei desaparecidos
La loro guerra, l’inevitabile sconfitta di quei giovani in armi e la morte di molti di loro è stata l’inizio della fine della dittatura ed è da lì che si è cominciato a fare almeno un po’ di luce sulla sorte dei desaparecidos.
In un angolo della città, al Cafè delle Biela uno dei più grandi scrittori del 900, Jorge Luis Borges e il suo amico Adolfo Bioy Casares sono ancora seduti al loro tavolino o, almeno, lo è il loro ricordo .
Borges meritava il Nobel, ma non lo ebbe per la profonda antipatia che suscitava a tutto il mondo accademico.
Anche al Cafè Tortoni si incontravano scrittori e intellettuali; Osvaldo Soriano sarà passato di lì?
Sicuramente in questa città sono passati alcuni dei grandi di un’arte ingiustamente considerata minore, il fumetto; gli italiani Hugo Pratt e Dino Battaglia, in cerca di fortuna lontano dall’Italia ancora povera del dopoguerra, Héctor Oesterheld, il creatore dell’Eternauta e tanti altri
E si ritorna a Plaza de Mayo: Héctor Oesterheld è uno dei desaparecidos, la guerra sporca gli aveva portato via già due figlie, poi è toccato a lui, scomparso nel 1978, l’anno del Mundial d’Argentina, di Paolo Rossi e di Cabrini. Ricordate? I carrarmati sul tabellone dei risultati..
Dopo di lui scompariranno, una dopo l’altra, le ultime due figlie.
Due delle figlie, scomparse, erano incinte… Ci sarà una nonna che in quella piazza avrà cercato i loro nomi?
L’angolo del tango a Buenos Aires
La fisarmonica è un ricordo antico ;il suono della fisarmonica accompagnava feste di paese, o di balere al mare, walzer o, mazurke, il tiro a segno in cui si vincevano bottigliette di liquido colorato , il bancone dello zucchero filato, il bar con i tavoli di bachelite, odore di vino sfuso, giocatori di carte intenti al loro compito, fumo spesso di sigari e sigarette
Fisarmoniche suonate da ambulanti agli angoli di strada o lungo il corso, vicino alle chiese, un ricordo ma anche un suono antico
La fisarmonica sbarcata in Argentina è il bandoneon, parente stretto della nostra fisarmonica, nato da padre tedesco ma successivamente emigrato, anche lui, in terra argentina.
Non più feste di paese, il bandoneon guida il ritmo incalzante del tango, ed è dai tasti del bandoneon che nasce la magia che riporta il tempo del ballo alla nostalgia.
All’angolo fra una strada intitolata a Carlos Gardel ed il più ampio viale Anchorena c’è l’Esquina Carlos Gardel; è in quest’angolo, negli anni fra il 1920 ed il 1930,nel locale che era in quell’angolo quando attorno c’era il grande mercato popolare, che Carlos Gardel ha riscritto la storia del tango
Ancora adesso in quest’angolo è di casa il tango
Passando da un ampio bar, si arriva ad una sala da pranzo affacciata su un palcoscenico a due piani: nel piano superiore c’è una piccola orchestra, nel piano inferiore la voce dei cantanti, e i movimenti armonici, sensuali di chi completa lo spettacolo dando corpo al tango
Certo, nell’Esquina manca la sua voce, quella di Gardel, che ci viene restituita solo da CD che si possono trovare in uno dei numerosi negozi di dischi di Buenos Aires
Sono vecchie registrazioni, riportate direttamente da consumati dischi a 78 giri alle nuove tecnologie digitali; nel passaggio insieme alla voce ed alla musica il 78 giri porta in dote alla musica digitale un fruscio che restituisce anni e fascino. E la nostalgia
Sul palco luci, musica e passi di danza cercano di riportarci a questa nostalgia, però c’è più bravura che passione; ma la passione non si trova sicuramente in uno spettacolo.
Certo, il vecchio locale doveva essere ben differente, magari malfamato, magari con tavoli di legno, cattivo vino e fumo di cigarillos; magari qualche milonga è ancora così, ma non faremo in tempo a visitarne.
Magari quella del tango è solo un’illusione romantica o per romantici, e alle tentazioni del tango i giovani preferiscono il Fernet Branca con la Coca Cola quattro parti di cola e una di amaro
È così, un liquore arrivato nelle valige di cartone degli immigrati, un sapore di casa, diventa una bevanda che, in patria, è assolutamente improponibile
Il passo dei ballerini, il veloce incontro dei corpi, il loro piegarsi in modo quasi innaturale è comunque uno spettacolo, e la musica, ogni tanto, riesce a portarci lontano e a farci sognare nell’improvvisa apparizione di una figura bianco e nero .
Per le vie del quartiere San Telmo ci aspettano vecchi amici: seduta su una panca, in un angolo all’incrocio fra le calles Chile e Defensa, c’è Mafalda con Manolito e Susanita, personaggi che Quino ha creato nei suoi fumetti e ha poi regalato a tutti noi.