Santa Cruz de La Sierra
Arrivare a S. Cruz e pensare di essere in un altro mondo. Questa grande città, nata solo a metà del 1800, nuova, moderna nel suo centro e scalcinata nelle sue periferie, ha una superficie a forma circolare e le sue arterie stradali avvolgono il suo centro come una ragnatela.
Nel traffico caotico, dentro a taxi che inspiegabilmente hanno il quadro degli strumenti posizionato davanti al posto del passeggero e non di fronte all'autista, si guadagna terreno e spazio a colpi di clacson e mosse azzardate e quando si giunge ad una delle numerose rotatorie, un nugolo di ragazzini ci abborda per vendere tronchetti di canna da zucchero già spellata e pronta da succhiare, bibite dai colori inquietanti, fette di torta, foglie di coca, semi, frutta, di tutto.
Vederli stringe il cuore, sono malmessi, dovrebbero essere a scuola o a giocare in un parco, ma si arrabattano come possono per portare a casa qualche spicciolo. E sono tanti.
La casa che abitiamo è posta dove la città finisce e non è difficile sentire strida di uccelli, alzare lo sguardo e vedere volare nel cielo pappagalli colorati di rosso, verde, blu oppure guardare per ore un bradipo che per scendere dal suo albero impiega un pomeriggio.
Le mucche, di ritorno dal pascolo, ci vengono a trovare e di notte, grazie all'assenza di inquinamento luminoso, un cielo sontuosamente stellato si fa ammirare in tutta la sua bellezza.
Perchè andare a S. Cruz e non nelle magnifiche città dai resti coloniali come La Paz, Potosì, Sucre?
Un monello di sei anni, folti e lucidi capelli neri, occhi scuri indagatori e un po' preoccupati, vive lì, in quella città.
Arrivammo in due in Bolivia, mio marito ed io, dopo 42 giorni tornammo più ricchi, eravamo in tre.
Ma questa è un'altra storia.
Angela
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