Come Percorsi di pace aderiamo alla posizione di preoccupazione con altre associazioni in vista della prossima assunzione da parte italiana del comando della Missione Nato allargata in Iraq. Il comando della missione produrrà rischi di ripresa della violenza ma anche con un aggravarsi dei rischi per gli operatori italiani in Iraq
Ci uniamo a molte associazioni del mondo della nonviolenza, tra le quali Un Ponte Per, Accademia Apuana della Pace, Associazione per la pace di Padova, AssoPace Palestina, Casa per la Pace Modena, Centro di Documentazione del Manifesto Pacifista, Centro Studi Sereno Regis, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Commissione globalizzazione e ambiente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei), Movimento Italiano Riconciliazione
L’ormai prossima assunzione italiana del comando della missione della Nato in Iraq desta molte perplessità e preoccupa che non vi sia stata fino ad oggi una adeguata discussione pubblica su questo fatto. La missione verrebbe ampliata da 500 a 4.000 uomini trasformandola di fatto in missione di combattimento da quella che, almeno sulla carta, era solamente funzionale all’addestramento dell’esercito iracheno.
La recente decisione di dotare le Forze Armate italiane di una flotta di Hero-30, i cosiddetti droni Kamikaze dichiaratamente finalizzati all’utilizzo nel “mutato scenario operativo in Iraq”, come scritto nella relazione del Ministero della Difesa riportata dall’osservatorio Milex, non può che aggravare questa nostra preoccupazione.
La missione italiana in Iraq, con 280 militari impegnati nella forza Nato e 900 militari nella missione Prima Parthica che nella Nato sarà integrata, diventa così la più grande missione italiana all’estero. Se prima la presenza militare italiana era interna alla Coalition of the Willing per la lotta contro Daesh da ora in poi acquisisce di fatto ben altra funzione.
Mosul è stata liberata a ottobre 2016 e la campagna militare contro Daesh è stata dichiarata conclusa dal governo iracheno alla fine del 2017. Lo sporadico ripresentarsi di attentati di quest’origine e la permanenza di sacche di estremismo violento non giustificano la presenza di una forza della Nato così consistente, con tanto di robot assassini e aerei da combattimento.
L’Iraq è un paese nel quale si combatte da tempo una parte del conflitto che oppone Stati Uniti e Iran. Un conflitto combattuto tramite terze parti e giocato con cinismo sulla pelle di donne e uomini iracheni e che tiene in ostaggio il paese da anni.
La sconfitta definitiva di Daesh va affidata alla politica, alle riforme sociali e lo possono e devono fare gli iracheni. Compito degli europei dovrebbe essere di favorire la liberazione del paese da questa morsa e sostenere lo sviluppo economico, la democrazia e i diritti umani e questo non si fa con gli eserciti, ma collaborando con l’attivo sostegno alla società civile irachena.
Il rischio concreto è che l’Italia rimanga invischiata nella lotta per il controllo dell’Iraq, per conto di potenze che, come si è visto già drammaticamente in Afghanistan, non sono in grado di favorire lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani; anche con la conseguenza di nuovi rischi più gravi per la sicurezza delle organizzazioni umanitarie italiane che operano in Iraq.