Qualche domenica fa, in una bella giornata di sole, ho fatto la passeggiata che ha segnato tutte le mie domeniche mattina sino all’età di 12 anni. Non c’era freddo, caldo, pioggia o neve che tenesse. La domenica, mano nella mano con la nonna Giuseppina, si andava in Certosa.
Sono partita dalla casa dove abitavamo fuori porta S. Isaia diretta all’entrata principale del cimitero e ai suoi viali.
Erano decenni che non facevo quel particolare percorso e ho dovuto constatare che certi visi e nomi noti (che non sai perché li ricordi) non c’erano più. Che ne è stato della famiglia Malaguti? E il giovane Aurelio al quale lasciavamo i fiori un po’ appassiti che cambiavamo sulle nostre tombe? E la bella Isolina? Mi verrebbe da dire che sono passati a miglior vita.
La pietra rotta del soldato Franchino Rimondi sulla quale facevo una specie di altalena mentre aspettavo che la nonna cimasse i fiori, ora è aggiustata. Non ci sono nomi sopra, è diventata una semplice pietrona di pavimento sotto il porticato.
Mi siedo sugli scalini dove nell’ultimo anno la nonna mi aspettava perché non riusciva più a fare le scale. Io salivo a pulire la tomba dello zio e del nonno e lei mi parlava a voce piano/alta: non si può urlare in Certosa ma io avevo paura ad allontanarmi da sola e lei mi parlava per farmi compagnia finché di corsa non riscendevo le scale.
Una delle frasi che spesso ripeteva è una sintesi di vita: “Loro sono distesi, riposano in orizzontale - diceva - Noi siamo in piedi, verticali, a testa alta. Più alta tieni la testa e più ti avvicini al cielo.” Come certi passi delle Divina Commedia il senso delle parole l’ho capito avanti negli anni.
Sto tornando a casa, mia, Ego mi aspetta per bere il caffè.
Che ca..o virus, infimo nemico, puoi fregarmi in qualsiasi momento, ma io intanto cammino a testa alta, il più possibile alta, così farai più fatica a centrare le mie narici.
Mara Menzani