La Filanda

I viaggi degli escursionisti
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PATAGONIA E TERRA DEL FUOCO - di Antonio - prima parte

TERRA DEL FUOCO E PATAGONIA

 

premessa

 

Il mio amore per la  Patagonia è nato sui libri; è nato senza aver visto neanche una fotografia, con idea molto approssimativa della geografia dei luoghi, tale da farmi  confondere, fino allo sbarco a Ushuaia, la Patagonia con la Terra del fuoco

I miei occhi erano stati riempiti dai racconti dei miei scrittori sudamericani preferiti, a cominciare da Osvaldo Soriano, dall’idea di un territorio estremo e sconosciuto

Alla fine l’impresa è arrivata, ed il primo viaggio, oltre i confini dell’Europa e del bacino del mediterraneo, mi ha portato alla fine del mondo.

Quello che ho visto era molto di più di quello che avevo immaginato; non è stato possibile vedere tutto, una parte delle immagini sono ancora nella carta dei miei libri preferiti, ma questo fa parte di un desiderio ancora da esaudire

Ho capito cos’è la Patagonia, la sua pianura in apparenza desolata, le montagne sullo sfondo, l’assenza di città e le strade che sembrano perdersi nel nulla.

Abbiamo visto la fine del mondo, anzi, abbiamo capito di essere alla fine del mondo..

Da qualche tempo, alle fine di ogni viaggio, riporto in un breve racconto le impressioni; stavolta non potevano rimanere confinate in poche righe, e così ho superato le 10 pagine.

Non ho raccontato il viaggio, non è un diario di bordo; ho cercato di ricostruire le emozioni, perché possano essere ritrovate ogni volta che qualcuno legge queste pagine

 

Da (quasi) gli Appennini a (più o meno) le Ande

 

Bologna ,  da( quasi)   gli Appennini

 

 

Valìgia: Contenitore per riporvi il vestiario e altri oggetti personali da portare con sé in viaggio, in forma di parallelepipedo oppure a soffietto, più o meno rigido, di cuoio, tela, stoffa impermeabilizzata, cartone telato, materiali plastici e anche metallo, con coperchio apribile ma non staccato, e munito di un manico (o di due maniglie che si uniscono in modo da poter essere afferrate con una mano sola), talora, se poco voluminoso, con tracolla (i modelli più grandi sono dotati, a volte, di due rotelle, per il trascinamento a mano)

 

La definizione che dà la Treccani del termine “valigia”, non è, non può essere quella della valigia che abbiamo preparato per il viaggio in Patagonia, che è più un incrocio fra la coperta di Linus, a cui aggrapparsi nei momenti di panico e la borsa di Mary Poppins, contenitore in cui tutto trova posto.

Nella valigia, anzi, nelle valige, ci deve essere tutto quello che ci può servire, anche se non è chiaro cosa ci possa servire veramente.

A complicare il tutto, il pensiero che il bagaglio a mano deve essere anche il deposito di salvataggio di quanto possa eventualmente essere perso in un eventuale, possibile, sfortunato scambio nell’aeroporto di San Paolo, e quindi contenere il materiale tecnico (scarponcini, pantaloni e materiale da trekking vario) che, si presume, debba essere utile, anzi, indispensabile per la Patagonia dove, si narra, nella stessa giornata possono alternarsi le quattro stagioni.

Ma è evidente che nel bagaglio a mano deve trovare posto anche il cambio di vestiario leggero, perché in quella parte del nuovo mondo ci si arriva che è piena estate, mica inverno come qua fuori, quindi magliette a maniche corte, pantaloni leggeri, da indossare velocemente in aeroporto.

Ma il puzzle è completato dal fatto che devono trovare posto anche le ciabatte, il cuscino e quant’altro possa renderci più comode le dodici ore di volo. E le medicine!!

Dato che Mary Poppins la sua borsa non ce l’ha voluta prestare, è una battaglia all’ultimo oggetto, all’ultimo indumento; in soccorso arriva la borsa da viaggio, che dovrebbe contenere solo documenti, ma in cui vengono dirottate ciabatte, libri, medicine e altro in ordine sparso.

 

La partenza per il viaggio è un viaggio anch’esso, a più tappe: da casa alla Casa della Pace, dove ci aspetta l’autobus, all’autogrill per un pranzo veloce, e poi, finalmente, all’aeroporto da cui comincerà il viaggio.

 

Anche l’attesa fa parte del viaggio, e, in attesa del check-in ,comincia l’ultimo appello alle cose messe nel bagaglio, e si passa all’ultimo veloce passaggio dal bagaglio di stiva a quello a mano, alla borsa da viaggio. E viceversa

La partenza è una corsa a tappe attraverso l’aeroporto, fra controllo del biglietto, dei bagagli, dei passaporti e attese per il passaggio successivo. Fino all’imbarco

Siamo tutti nella stessa fila in aereo, e la prima impresa verso il nuovo mondo da affrontare, è riuscire a dormire per poter essere pronti alla mattinata che ci aspetta dall’altra parte del mondo.

Anche la notte del viaggio è una corsa a tappe: la cena, consumata mantenendo in equilibrio instabile il vassoio, le posate, il bicchiere pieno, la coperta appena tirata fuori dal cellophane, poi il tentativo di continuare… un libro sfogliato distrattamente ma indispensabile (In Patagonia, di Chatwin), il passaggio ad un film, mentre si tenta di aggiustare dietro la testa il cuscino, infilare le mascherine per gli occhi per eliminare quel poco di luce che è rimasta nella cabina dell’aereo.

Una lunga battaglia, condotta da ciascuno in modo più o meno vittorioso, fino all’arrivo del caffè, lo sbarco a San Paolo, un veloce cambio per reggere ai quasi 30 gradi di differenza fra (quasi ) Appennini e (vicini alle) Ande ed un nuovo volo da raggiungere attraversando quasi tutto l’aeroporto, con la consueta corsa a tappe fra file ed attese.

 

…a Buenos Aires, (quasi ) le Ande

Finalmente Buenos Aires, non abbiamo perso nessun bagaglio, ad accoglierci la nostra guida e l’autobus che ci porta verso il centro della città.

 

Arrivano le navi

 

 

I gradini che portano ai piani superiori sono consumati; sotto i gradini, sotto le conche scavate dal passaggio pesante di migliaia di piedi, gli occhi

Occhi che ricordano quanti fra queste mura hanno avuto  la prima accoglienza in questa parte del “Mondo Nuovo”; gli occhi, sui gradini, rimandano ai piedi e alla loro fatica.

Sono milioni di piedi; fra il 1891 e il 1914 più di 8 milioni di piedi, 4 milioni di migranti che sono passati per queste stanze, e di questi 2 milioni erano italiani. I migranti, nel 1895, costituivano il 25% della popolazione

Il luogo di questi gradini oggi è il  Museo dell’immigrazione, nel secolo scorso era l’Hotel des Immigrantes, l’Ellis Island in terra argentina,

“El remanido concepto de quel los argentinos descendemos de los barcos, en lugar de ostentar una historia propria y milenaria, fue utilizado a veces como un desmerito cuando, per el contrario , deberia enourgullercenos”

In altre parole, ed in altra lingua, il messaggio è che non è un demerito discendere dalle navi piuttosto che da una storia millenaria, anzi

Scesi dalle navi, passati dall’Hotel des immigrantes, i migranti si sparsero nella città, costruendo case, quartieri, e divennero i portenos, quelli del porto, quelli che(di) scendevano dalle navi, quelli che sarebbero diventati i nuovi abitanti di Buenos Aires .

Dalle finestre del Centro di Accoglienza il panorama delle nuove costruzioni della zona del porto; affacciati sul Rio della Plata palazzi in vetro e cemento, residenze di lusso, uffici, simboli di ricchezza che scacciamo il ricordo delle origini

Uno dei punti di arrivo dei portenos fu il quartiere della Boca, che da loro fu trasformato, diventando il quartiere dei marinai genovesi, con le case costruite con le lamiere sbarcate dalle navi

Per questo, per la loro provenienza, gli abitanti della Boca  vennero e vengono chiamati Xeneizes, Genovesi, e il loro orgoglio fu tale che su quelle lamiere fondarono la loro nuova repubblica marinara, la Republica indipendiente de la Boca, ancora evocata dai murales nella via del “caminito” 

 

Nel 1895 i piedi sbarcati dalle navi erano talmente tanti che su 38mila abitanti del quartiere solo 2.500 erano di origine spagnola

Le lamiere delle case sono ancora di tutti i colori; i discendenti di quei marinai popolano, nella mia memoria,  i racconti di Osvaldo Soriano, tifano per il Boca Juniors e sognano ancora Maradona.

E, per estensione dell’originale provenienza, quasi un marchio di origine, piuttosto che peccato originale, ancora adesso tifosi del Boca, tutti, vengono chiamati Xeneizes

Xeneizes ve ne sono anche, involontariamente ed in incognito, nella nostra memoria di bambini; Marco il piccolo protagonista di Dagli appennini alle Ande, veniva da Genova e, sbarcato a Buenos Aires, proprio qui, dalla Boca, nella comunità genovese, genovese fra gli Xeniezes, comincerà la ricerca della sua mamma.

Anche molti degli angeli che popolano il cimitero della Recoleta discendono dalle navi; hanno il volto delle mogli, delle figlie degli scalpellini arrivati con le navi e che incisero la pietra.

Scalpellini arrivati da lontano con i loro ricordi, magari dalla Puglia, come il nonno e lo zio di   Francesca; ritornati poi a casa, hanno continuato a parlarsi fra di loro in spagnolo, segno di antica complicità, e nel lungo tempo di lontananza era stato il volto delle loro donne, riprodotto agli angoli delle cappelle, a  tener vivo il ricordo

 

 

Fuori dalla Boca qualcuno dei genovesi/Xeneizes è arrivato anche in pieno centro, in Avenida Corrientes, la broadway di Baires, con i suoi teatri, le sue librerie e le sue pizzerie; la più pizzeria grande, fra le  più famosa e rinomate è la pizzeria Guerrin.

Fondata da immigrati genovesi, la pizza, preparata con “muzzarela” è una pizza gorda, la mas gorda.

Con la pizza” chica” ci si mangia abbondantemente, con quella grande, incautamente ordinata dal turista di passaggio, la resa incondizionata alla pizza, a metà dell’impresa, è inevitabile.

Anche perché la mozarella è a doppio strato, e la pasta della pizza è insaporita da una quantità d’aglio priva di limiti e che trova, forse, la sua spiegazione nel ricordo del pesto.

L’avenida Corrientes, piena di teatri, con due spettacoli, alle 20 ed alle 23; gli spettatori fanno la fila per entrare, di lato, accanto all’ingresso, per terra sui cartoni, gente che dorme.

Lungo le avenidas, sotto gli alberi bottiglia, gonfi d’acqua, famiglie che si preparano a passare la notte; famiglie di cartoneros, che passano, reali, accanto al turista distratto, con il carico di cartoni e fatica quotidiana.

 

 

La memoria sul marciapiede

 

La storia ufficiale, quindi, quella che finisce sui libri, gli argentini, la grandissima parte degli argentini se la sono portata con le valige di cartone dal vecchio continente e hanno continuato a scriverla sul libro della nuova patria.

Le tracce della storia, in una città, sono nei palazzi, nelle strade, nelle insegne dei negozi; nelle nostre città anche sotto la pavimentazione delle strade, nelle cantine, tracce di storia antica e quotidiana, tracce di anni, di culture, di sogni.

La città di Buenos Aires non ha tracce di storia che precedano i portenos; gli Inca non sono passati di qua, ed è rimasto poco anche di spagnolo.

Si affaccia sulla plaza de Mayo un edificio che risveglia i miei ricordi; ci penso un attimo, poi mi aspetto di vedere Don Diego De la Vega tramutarsi in Zorro, saltare sul cavallo, che si impenna…

No, Don Diego non c’è, ma quella sembra davvero casa sua; è l’ultima reliquia del passato coloniale di Buenos Aires

Plaza de Mayo  si apre di fronte alla casa Rosada, sede della presidenza della repubblica argentina; fra la Casa Rosada e la piazza una cancellata, a stabilirne le distanze

Tutti i giovedì qui si raccolgono le madri e le nonne di Plaza de Mayo, con il loro fazzoletto bianco, in attesa, in protesta, in ricordo: sperano ancora?

La storia di quegli anni non è nei palazzi, nei monumenti: è sotto i nostri piedi tracciata per terra.

In Plaza de Mayo l’angolo delle madri, delle nonne è ricordato da un fazzolettone, il loro simbolo, dipinto su un angolo della piazza.

 

Il ricordo di questi figli e dei nipoti, dei desaparecidos, appare nelle targhe, incastrate nei marciapiedi, che ricordano la loro scomparsa nell’orrore di quegli anni; ricordano il nome, la giovane età, il luogo in cui erano stati visti l’ultima volta. Rapiti nell’angolo della scuola di Tango, davanti all’università. Scomparsi. Desaparecidos

In un altro angolo di Plaza de Mayo stanno i reduci della guerra delle Malvinas, la loro protesta; il loro destino, il loro ricordo, è legato a quello dei desaparecidos

La loro guerra, l’inevitabile sconfitta di quei giovani in armi e la morte di molti di loro è stata l’inizio della fine della dittatura ed è da lì che si è cominciato a fare almeno un po’ di luce sulla sorte dei desaparecidos.

In un angolo della città, al Cafè delle Biela uno dei più grandi scrittori del 900, Jorge Luis Borges e il suo amico Adolfo Bioy Casares sono ancora seduti al loro tavolino o, almeno, lo è il loro ricordo .

Borges meritava il Nobel, ma non lo ebbe per la profonda antipatia che suscitava a tutto il mondo accademico.

Anche al Cafè Tortoni si incontravano scrittori e intellettuali; Osvaldo Soriano sarà passato di lì?

Sicuramente in questa città sono passati alcuni dei grandi di un’arte ingiustamente considerata minore, il fumetto; gli italiani Hugo Pratt e Dino Battaglia, in cerca di fortuna lontano dall’Italia ancora povera del dopoguerra, Héctor Oesterheld, il creatore dell’Eternauta e tanti altri

E si ritorna a Plaza de Mayo: Héctor Oesterheld è uno dei desaparecidos, la guerra sporca gli aveva portato via già due figlie, poi è toccato a lui, scomparso nel 1978, l’anno del Mundial d’Argentina, di Paolo Rossi e di Cabrini. Ricordate? I carrarmati sul tabellone dei risultati..

Dopo di lui scompariranno, una dopo l’altra, le ultime due figlie.

Due delle figlie, scomparse, erano incinte… Ci sarà una nonna che in quella piazza avrà cercato i loro nomi?

 

L’angolo del tango a Buenos Aires

La fisarmonica è un ricordo antico ;il suono della fisarmonica accompagnava feste di paese, o di balere al mare, walzer o, mazurke, il tiro a segno in cui si vincevano bottigliette di liquido colorato , il bancone dello zucchero filato, il bar con i tavoli di bachelite, odore di vino sfuso, giocatori di carte intenti al loro compito, fumo spesso di sigari e sigarette

Fisarmoniche suonate da ambulanti agli angoli di strada o lungo il corso, vicino alle chiese, un ricordo ma anche un suono antico

La fisarmonica sbarcata in Argentina è il bandoneon, parente stretto della nostra fisarmonica, nato da padre tedesco ma successivamente emigrato, anche lui, in terra argentina.

Non più feste di paese, il bandoneon guida il ritmo incalzante del tango, ed è dai tasti del bandoneon che nasce la magia che riporta il tempo del ballo alla nostalgia.

 

All’angolo fra una strada intitolata a Carlos Gardel ed il più ampio viale Anchorena c’è l’Esquina Carlos Gardel; è in quest’angolo, negli anni fra il 1920 ed il 1930,nel locale che era in quell’angolo quando attorno c’era il grande mercato popolare, che Carlos Gardel ha riscritto la storia del tango

Ancora adesso in quest’angolo è di casa il tango

Passando da un ampio bar, si arriva  ad una sala da pranzo affacciata su un palcoscenico a due piani: nel piano superiore c’è una piccola orchestra, nel piano inferiore la voce dei cantanti, e i movimenti armonici, sensuali di chi completa lo spettacolo dando corpo al tango

 

Certo, nell’Esquina manca la sua voce, quella di Gardel, che ci viene restituita solo da CD che si possono trovare in uno dei numerosi negozi di dischi di Buenos Aires

Sono vecchie registrazioni, riportate direttamente da consumati dischi a 78 giri alle nuove tecnologie digitali; nel passaggio insieme alla voce ed alla musica il 78 giri porta in dote alla musica digitale un fruscio che restituisce anni e fascino. E la nostalgia

Sul palco luci, musica e passi di danza cercano di riportarci a questa nostalgia, però c’è più bravura che passione; ma la passione non si trova sicuramente in uno spettacolo.

Certo, il vecchio locale doveva essere ben differente, magari malfamato, magari con tavoli di legno, cattivo vino e fumo di cigarillos; magari qualche milonga è ancora così, ma non faremo in tempo a visitarne.

Magari quella del tango è solo un’illusione romantica o per romantici, e alle tentazioni del tango i giovani preferiscono il Fernet Branca con la Coca Cola quattro parti di cola e una di amaro

È così, un liquore arrivato nelle valige di cartone degli immigrati, un sapore di casa, diventa una bevanda che, in patria, è assolutamente improponibile

Il passo dei ballerini, il veloce incontro dei corpi, il loro piegarsi in modo quasi innaturale è comunque uno spettacolo, e la musica, ogni tanto, riesce a portarci lontano e a farci sognare nell’improvvisa apparizione di una figura bianco e nero .

Per le vie del quartiere San Telmo ci aspettano vecchi amici: seduta su una panca, in un angolo  all’incrocio fra le calles Chile e Defensa, c’è Mafalda con Manolito e Susanita, personaggi che Quino ha creato nei suoi fumetti e ha poi regalato a tutti noi.

 

Dopo Ostherald ancora fumetti, ma la storia ha un finale più lieto di quella dell’Eternauta.

Quino ha smesso di raccontarne le storie nel 1973, perché non voleva continuare a ripetere che il mondo va male, come in effetti succedeva e succede.

Quando arrivarono i generali Quino tornò in Europa, da dove venivano i suoi genitori; così ha potuto continuare a regalarci vignette, anche se raramente ha ridato vita a Mafalda

Ma Mafalda e i suoi amici continuano ad aggirarsi fra di noi; di fronte alla panchina, al numero 371 di calle Cile c’è una targa “Qui visse Mafalda”, alla pari con targhe più altisonanti che celebrano luoghi in cui vissero, morirono, dormirono importanti poeti, generali, uomini politici.

 

Arrivo in terra del Fuoco

Fra Buenos Aires e Ushuaia ci sono 4 ore di volo, 20 gradi di differenza ed un brusco passaggio dal caldo umido e dal sole della capitale, al cielo grigio e piovoso della terra del fuoco.

Il cambio di cielo non è inatteso, le giacche a vento sono rimaste nello zainetto dove erano state infilate tre giorni prima, all’arrivo a San Paolo, pronte ad essere velocemente indossate nel rapido  passaggio dall’aereo all’atrio dell’aeroporto.

 

Il nome di Ushuaia, lascia un po’ perplessi, e la pronuncia che ne diamo è fantasiosa, perché cerchiamo di farla alla spagnola; ma il nome deriva dalla lingua Yagán (i primi abitanti del luogo), Ush Waia più o meno “baia profonda”, e già al primo incontro ci sembra il nome appropriato per una città fondata alla fine del mondo

Saliamo in autobus pronti all’esplorazione della Terra del Fuoco; il cielo è grigio, la città è chiusa fra il monte Martial, ancora innevato, e le acque del canale di Beagle.

Non è casuale che questo luogo, con queste barriere naturali e questo clima, sia stato destinato, dal 1902 al 1947 ad essere sede del carcere più estremo del paese, alla prigionia dei criminali più pericolosi, dei rivoluzionari di ogni razza ed ogni paese arrivati in Argentina

L’autobus si allontana dalla cittadina, e risaliamo il canale di Beagle, verso il Mirador Lapataia, adagiato nella omonima Bahia Lapataia.

Le quattro ore di volo da Buenos Aires si concretizzano in un cartello che ci ricorda che, con la ruta Nacional n°3, siamo a 3.079 km da Buenos Aires. Poi, volendo arrivare un po’ più in la, ci sono 17.848 km fino all’Alaska: la lunghezza delle Americhe.

Il mirador è affacciato sulla baia, e lo sguardo percorre le acque della fine del mondo, fino a fermarsi alle isole più lontane, macchia di colore scuro fra l’azzurro cupo del mare e l’azzurro ancora chiaro del cielo, misto al grigio delle nuvole

Ed è la leggera foschia, le nuvole grigie fino all’orizzonte delle isole più lontane dello stretto a ricordarci (o suggestionarci?) che siamo davvero alla fine del mondo, il confine oltre il quale ci sono solo le tempeste di Capo Horn e poi, ancora l‘Antartide.

E appartiene al mondo alla fine del mondo la boscaglia verde e umida, che ci accompagna nel sentiero attraverso la Bahia Ensenada, fra piante, foglie e fiori diversi da quelle che conosciamo, aumentando il senso di lontananza; un pontile, in apparenza abbandonato, si addentra nelle acque della fine del mondo

Il pranzo è nel centro di accoglienza sul lago Roca, e facciamo il nostro incontro con l’Asado Patagonico, visione catartica di una montagna di carne di agnello ed altro su un braciere portato direttamente a tavola.

L’abbondanza di carne è lo specchio dell’assenza di verdure, rare e preziose nella terra del fuoco e nella steppa patagonica, territori sconfinati, ma in cui vedremo raramente un campo coltivato

L’albergo è a mezza costa, fra gli alberi; alle spalle le cime delle montagne, il Monte Martial; di fronte il mare.

Stanotte dormiremo in una stanza alla fine del mondo.

 

Il canale di Beagle

L’abitato di Ushuaia si sdraia sulla baia del canale di Beagle e si allunga verso il monte Martial; le case si inseguono su strade parallele, unite e attraversate da veloci salite che si arrampicano verso il monte.

Il tassista spiega che ad Ushuaia non si da la precedenza a destra, ma a chi sale o scende; la regola nasce dalla difficoltà, nei mesi freddi, per chi sale di ripartire una volta fermo, per chi scende di fermarsi.

Ad Ushuaia, nei lunghi mesi invernali, le gomme termiche sono inutili e le catene inefficaci; ci vogliono le gomme con i chiodi per poter girare sulle strade coperte di ghiaccio.

“Las Malvinas son Argentinas“; “Ushuaia capital de Malvinas”; è vero, Ushuaia è, inaspettatamente, la capitale in esilio delle non vicine Malvinas e la memoria di quella guerra non è assolutamente lontana.

Se in Plaza de Mayo i veterani della guerra  manifestano, rivendicando le loro pensioni di guerra, qui, all’ingresso dell’abitato, nella rotonda che conduce al vecchio aeroporto, sono le loro immagini che ci accolgono, nelle foto che li ritraggono, ancora ed allora giovani, rassegnati, prima dell’ultima battaglia a Puerto Argentino.

A Ushuaia ci sono ancora le basi militari, da cui questi ragazzi sono partiti per l’avventura che i generali hanno voluto per loro; ora le caserme sembrano deserte, all’ancora nel porto un paio di navi dell’Armada, in esposizione lungo la strada una vecchia motovedetta, ovunque l’impressione dell’abbandono e di cose abbandonate di colpo.

Riflessi di case che sembrano non abitate; case basse, in fila lungo le strade che si incrociano ad angolo retto, case che hanno vissuto giorni migliori, ma anche peggiori, case costruite in disordine e con materiali disordinati, dove le lamiere si accostano al legno e al cemento prefabbricato.

Nuove case con giardino sono attaccate a vecchie costruzioni, e la sensazione della precarietà e dell’abbandono è un po’ ovunque.

Ci imbarchiamo su un catamarano che esce lentamente dal porto, sotto una pioggia sottile, che copre i vetri e confonde un po’ la vista, le case e le montagne sono immediatamente dietro, montagne che arrivano quasi fino al mare, montagne dominate dal monte Martial, ancora coperto di neve.

Navighiamo lungo il canale di Beagle, che collega Pacifico e Atlantico; vogliamo arrivare al Faro Les Esclaireus, il faro della fine del mondo

Nel percorso ci accostiamo alle piccole isole seminate nel canale; più che popolate queste isole sono ricoperte da colonie di centinaia di uccelli, da cormorani di Magellano, cormorani Imperiali. Insieme a loro la presenza importante di gruppi di leoni marini.

Talvolta le due specie, gli uccelli e i mammiferi, coesistono gli uni accanto agli altri, ignorandosi; più spesso si sono suddivisi il territorio, e si godono l’estate australe, estate che noi affrontiamo con la giacca a vento, sotto una pioggia sottile che, in lontananza, è quasi nebbia.

In comune cormorani e leoni marini hanno il fatto che ci ignorano; non sono né incuriositi né infastiditi dal dal rumore della nave e dagli scatti scatti delle macchine fotografiche.

I cormorani sono uno accanto all’altro, ogni tanto qualcuno si leva in alza in volo, forse per andare a pescare, forse per sgranchirsi le ali, e poi torna a posarsi.

I leoni marini, invece, sono accatastati, uno sull’altro; si distinguono l’uno dall’altro  solo per una macchia di colore differente  o perché dal mucchio sporge un muso o una zampa.

Qualcuno, i più giovani forse, i meno abituati, ci guarda, ma senza interessarsi più di tanto; nessuno si tuffa in acqua ,sono immobili , sugli scogli.

Sbarchiamo su un’isola, la vegetazione è bassa, ci sono cespugli, qualche bacca, la riproduzione di una capanna e dei suoi antichi abitanti.

Abitanti talmente deformati dall’adattamento all’habitat, ad una vita sempre sul mare, sulle canoe, da apparire anche poco umani, tali da indurre Darwin in errore, identificandoli come anello fra uomo e la scimmia piuttosto che essere umani adattatisi ad un ambiente ostile

 

Poi, finalmente, nella luce resa lattiginosa dal confondersi del mare e del cielo, solitario sullo scoglio, il faro della fine del mondo, con le sue strisce rosse.

Una visione fra la foschia, sotto un cielo grigio che ci conferma che si, questa è proprio la fine del mondo; oltre la foschia l’Antartide o, forse, le colonne d’Ercole, Atlantide, oltre, finalmente e comunque, Capo Horn.

Ritorniamo al porto, ripercorriamo le strade di Ushuaia; la seconda parallela al litorale ci regala il calore de La cantina Fuegina de Freddy, il sapore del gambero reale; la birra, si chiama invece Capo Horn.

Anche questo è Tierra del Fuego

 

Lo stretto di Magellano

La luce alle cinque del mattino alla fine del mondo, nella Isla Grande de Tierra del Fuego

La vista sullo stretto di Beagle, sopra la città, a metà costa del monte Martial, dalla terrazza del nostro albergo. Il silenzio, la luce, la città, il porto, il mare, la costa dell’isola di fronte, il sentire, l’essere alla fine del mondo.

E il viaggio riparte alle 5.30 del mattino, in autobus, un autobus forse senza benzina, sicuramente senza caffè; l’autista cerca un distributore, noi un caffè che ci consoli e ci spieghi perché siamo qui adesso, senza colazione, a quest’ora, e dove stiamo andando dopo

Da Ushuaia a Rio Grande 135 chilometri; 135 chilometri percorsi nella fine del mondo, 135 chilometri  nel nulla ,quasi nel nulla.

Ed è solo la prima tappa del nostro viaggio verso il 52° parallelo Sud, verso lo stretto di Magellano

 

Quella che affrontiamo quasi  addormentati non è una tappa di trasferimento, non lo capiamo subito, ma è una grande avventura lungo la frontiera, oltre la frontiera della quotidianità come la conosciamo.

Oltre i bordi della strada, oltre la sottile striscia di case nei paesi che sfiora, ci sono i territori della terra del fuoco, un nulla in cui si confondono cielo e terra in un orizzonte lontano, che non conosce un albero o una costruzione; nel paesaggio emergono pali della linea elettrica, del telegrafo, la linea nera della strada, e il viaggio di trasferimento diventa un’avventura.

Rio Grande, un abitato piantato in mezzo al nulla, case basse, di legno, di lamiera, di mattoni; la stazione degli autobus non è rassicurante, sembra la pensilina di un distributore di benzina senza le pompe di benzina.

Comincia l’esplorazione, la costruzione di fronte alla pensilina è una confortante panaderia; caffè, da mangiare, empanadas, dolci.

L’esplorazione di Rio Grande prosegue, con cautela; una struttura urbana a reticolo, strade perpendicolari alla Ruta 3 o parallele, pochissime persone in giro, di più nella stazione degli autobus.

Saliamo sul nuovo bus meno smarriti e più consapevoli; da Rio Grande a Punta Arenas sono 350 chilometri, da percorrere prima lungo, poi attraverso lo stretto di Magellano.

Dai finestrini del nuovo autobus continua il panorama della terra del fuoco, verso la Patagonia cilena; lungo la strada fattorie, pecore, guanachi.

Sull’autobus c’è chi ci porta il caffè, un dolce; e poi ci accompagna alla frontiera, quella degli stati, non quella abbiamo varcato e continuiamo ad attraversare da quando siamo arrivati alla fine del mondo.

La frontiera dei posti di polizia; prima quello argentino, che ha l’accortezza di non prendersi molto sul serio, poi quello cileno.

Qui entriamo in un edificio non finito, con i muri ancora non intonacati, ma al centro del quale troneggia un nastro simile a quello degli aeroporti, che trasporta i nostri bagagli in un tunnel nero, dove vengono trapassati a raggi x, alla ricerca di semi e di salami.

In Cile non si possono portare semi o generi alimentari, stretto controllo sanitario, c’è scritto; fuori il vento con la sua polvere e quant’altro voglia portarsi dietro, attraversa tranquillamente la frontiera che è una linea tracciata con la riga, che i guanachi e gli altri abitanti a quattro zampe della Patagonia ignorano

Le acque del canale di Magellano non sono soggette a lettura con i raggi X, e portano, inconsapevolmente, i pericolosi semi proibiti da un lato all’altro della frontiera

Arriviamo quasi inconsapevolmente ad un pontile che sarà in nostro punto di partenza per attraversare lo stretto di Magellano, e veniamo imbarcati su un traghetto che sembra un mezzo da sbarco, che ha pure vissuto tempi migliori.

Oltre a noi c’è un camion carico di pecore, di gran lunga la specie più presente in zona, anche loro immigrate. Le pecore possono rimanere sul camion, noi dobbiamo scendere dall’autobus e cerchiamo riparo dal vento sui ponti di passaggio della nave, rimpiangendo il caffè della panaderia.

Il vento spazza lo stretto di Magellano e per noi, l’attraversamento è epico, ma abbastanza veloce, e si avvicina la riva, il faro, qualche casa.

Scendiamo insieme alle pecore, poi le nostre strade si dividono, le salutiamo e, finalmente, si conclude il viaggio da Ushuaia, dopo meno di 500 chilometri, ma 10 ore di viaggio: siamo a Punta Arenas, Chile, Patagonia

 

Isla Magdalena

Attraversato lo stretto di Magellano, Punta Arenas è stata per anni sentinella del 52° parallelo sud, del passaggio fra Atlantico e Pacifico; ancora adesso la città è base dell’Armada Cilena e nei negozi spiccano adesivi che promettono sconti ai militari e alle loro famiglie 

La storia dell’emigrazione in questa città parla, dagli inizi del ‘900, anche croato, ed è in questa città che venne eletto deputato Salvator Allende.

 

 

 

 

PATAGONIA E TERRA DEL FUOCO - di Antonio  - prima parte