Come hai vissuto e come stai vivendo il tuo lavoro di insegnante in questa situazione di pandemia?
I due periodi di lockdown li ho vissuti in modo molto diverso. Lo scorso anno, nel marzo 2020, le emozioni e gli stati d’animo erano più che altro caratterizzati da un fortissimo disorientamento misto però anche a una forma di speranza che la situazione potesse risolversi nell’arco di poco, quindi il mantra dell’andrà tutto bene ci accompagnava a vivere questa fase con speranza, una speranza molto inconsapevole di quale fosse realmente la situazione. Oltre a questo disorientamento misto a speranza, c’era anche molto forte il senso d’inadeguatezza: il dovermi confrontare con un linguaggio a me non particolarmente simpatico, nel senso del dovermi rapportare con un tipo di didattica praticamente digitale che ho sempre visto, soprattutto a livello della scuola primaria, essere di secondo piano rispetto alla didattica più attiva, in presenza. Quindi, questa forma di paura di confrontarmi con il nuovo e con un cambiamento così repentino e anche la paura di non essere all’altezza. Quest’anno invece ho vissuto questo momento con una maggiore tranquillità perché comunque ero più consapevole degli strumenti in mio possesso, avevo fatto già esperienza lo scorso anno di quali potevano essere le difficoltà, i punti di forza e i limiti della didattica a distanza e quindi sapevo anche come organizzare meglio le mie proposte; però la stanchezza e la delusione erano state molto più forti rispetto a quelle dello scorso anno. Diciamo che l’elemento comune tra lo scorso anno e quest’anno è stato prioritariamente il fatto di essere una ‘presenza’ per i bambini e le famiglie: non tanto portare avanti il programma, fare verifiche, mandare non so quanti materiali che a loro volta erano disorientanti per le famiglie, ma dire ai miei bambini: ”ci sono: sono qui, voi ci siete per me e io ci sono per voi” . Questa era la cosa più urgente che mi ha spinto e mi spinge a continuare, quindi non la didattica a distanza, ma il cercare davvero di realizzare quella che doveva essere la didattica della vicinanza.
Ci sono paure, timori, soddisfazioni, delusioni di cui ci vuoi parlare?
Alla fine sia del precedente lockdown che di questo posso dire che le soddisfazioni sono state tante. Vedere i bambini che mandavano disegni, che mandavano messaggi, le famiglie che comunque hanno accolto e hanno camminato insieme in questa prova reciproca è stato il miglior riconoscimento che si poteva richiedere. È ovvio: ci sono stati anche momenti di grande paura e di grande rabbia. La rabbia, se posso così definirla, che mi ha accompagnato e mi accompagna ancora è quella del voler far finta di nulla, di voler far tutto, dimenticando che siamo in un momento di pandemia mondiale. Ho provato e provo molta insofferenza quando sento parlare di prove di verifica, di test, di interrogazioni, di prove di valutazione intermedia, finale, INVALSI, quando in questo momento credo che l’aspetto emotivo e psicologico dei bambini sia davvero prioritario su tutto che è la valutazione, la prestazione dei bambini. Quello che mi ha spinto nelle mie scelte è sempre stato il cercare di mettermi nei panni di tutti e di ciascuno dei miei bambini, di tutte e di ciascuna delle mie famiglie, con i percorsi più diversi, le risorse più diverse, i pensieri e le preoccupazioni più diverse e proprio per questo cercare di entrare in empatia con loro. Mi sono sentita molto lontana e molto distaccata da tutto quello che era il dover rivedere i programmi, il dover stabilire quanto programma svolgere, cosa fare, cosa non fare e come portare avanti delle prove di valutazione anche per classi parallele. Questo è stato l’elemento che mi ha creato più delusioni e anche più difficoltà.
La paura che ho soprattutto vissuto in questi mesi è stata quella di invadere lo spazio altrui: siamo entrati tutti nelle case e nell’intimità degli altri. Mi è sempre stato insegnato che quando si entra in casa di qualcuno lo si deve fare sempre in punta di piedi, con tanto rispetto: purtroppo non sempre questa modalità di didattica a distanza lo consente. Stavo pensando ad esempio a quando mi capitava di far leggere bambini che sapevo che avevano delle difficoltà e che nel ‘chiuso’ dell’aula sono comunque protetti, cioè è un momento che rimane intimo. Invece quando capita di coinvolgere bambini un pochino più fragili o in situazioni imbarazzanti in modalità DAD ecco che non c’è più privacy: tutti sentono tutti, le case sono quelle che sono e se tutti sono uno vicino all’altro può capitare di sentire il bambino che ha più difficoltà e pensavo anche ai genitori di questi bambini che potevano fare questi momenti di riflessione e quindi ho avuto tanta paura di andare a creare anche delle ferite nelle persone.
Ci sono state però tante soddisfazioni derivate proprio da questo cercare di rispettarci e di rispettare la sensibilità di ciascuno.
Quali strategie e modalità di lavoro hai messo in atto? Quali tra queste hanno avuto un’elaborazione collegiale e come?
La strategia è sempre stata quella di cercare di non affaticare troppo i bambini e di essere vicina e presente per loro. Quindi ho lavorato soprattutto l’anno scorso dando loro la possibilità di ascoltarsi e di condividere quelli che erano i loro pensieri, le loro paure, gli stati d’animo, le loro emozioni. Ogni giorno chiedevo loro di fare un disegno che esprimesse come si sentivano o di scrivere qualche pagina, diciamo così, di diario, che diventava anche lo strumento di condivisione tra di noi e una forma di dialogo a distanza tra me e ciascuno di loro per condividere e riflettere su quello che ci stava succedendo. A livello invece più di tipo disciplinare delle singole materie ho scelto di lavorare in ottica interdisciplinare, proponendo percorsi che spaziassero dall’italiano alla musica, all’arte, alla storia: lettura di quadri che diventavano poi un modo per abbinarli a musiche o a testi che loro dovevano produrre, scrivere dove potevano far emergere le loro competenze anche di consolidamento della scrittura, che era nel percorso della classe seconda.
Ogni settimana io inviavo, all’inizio della settimana, i materiali con delle indicazioni scansionate giorno per giorno. Ho lavorato molto cercando di far avere ai bambini dei ritmi abituali, quindi ogni settimana c’era la stessa modalità di comunicazione, ogni giorno c’era la stessa modalità di approcciarsi al lavoro e di restituzione del lavoro proprio perché il rituale voleva essere un modo comune per continuare ad avere questa forma di sicurezza che ci stava venendo a mancare con la chiusura della scuola. Essendo una seconda elementare io l’altro anno non ho utilizzato Classroom, ma ho utilizzato tutti i canali possibili perché tutti i bambini potessero essere raggiunti, per cui ho utilizzato il registro elettronico, Whatsapp, la mail: quello che mi premeva era che ogni singolo bambino potesse ricevere i materiali e potesse condividerli con me e non rimanesse solo, non rimanesse escluso. Io inviavo tutte le settimane, oltre alle indicazioni di lavoro, anche dei video, quindi del materiale asincrono, dove spiegavo loro cosa dovevano fare, li salutavo oppure raccontavo o leggevo loro una storia. In più facevamo dei Meet 2-3 volte alla settimana a piccoli gruppi, sempre in modo molto interattivo e poi, 1 volta alla settimana, ci incontravamo con un Meet di tutta la classe, con tutte le insegnanti, dove proponevamo di fare delle attività di tipo inclusivo perché nella nostra classe c’è la ricchezza di un bambino affetto da una sindrome dello spettro autistico e quindi lo si coinvolgeva in questo Meet di classe con attività che potevano essere racconto di storie o rielaborazione di disegni che i bambini dovevano mostrare e spiegare ai compagni riguardo a temi che venivano di volta in volta proposti e condotti durante il corso della settimana.
Quest’anno il lavoro è stato molto più semplificato in quanto eravamo tutti già più avvezzi a utilizzare la strumentazione tecnologica: i bambini avevano imparato a utilizzare il libro digitale e soprattutto gran parte del lavoro è stato nel condurre i Meet: tutti i giorni facevamo 2, 3 e anche 4 ore di Meet, durante i quai facevamo delle lezioni più che altro di tipo interattivo, quindi non lezioni frontali: ho sempre cercato di dare un taglio piuttosto dinamico, quindi anche con quiz, attività di lettura, di condivisione, in modo che i bambini si sentissero tutti coinvolti e soprattutto vivessero questa nuova modalità di didattica in modo sereno e motivante. La premura più grande è stata quella di non sovraffaticare i genitori con l’invio e la scansione di compiti e la richiesta di materiali di restituzione perché purtroppo le famiglie hanno vissuto momenti moto difficili non solo per lo smart working, non solo per tante situazioni problematiche a livello familiare e quindi era più che necessario da parte nostra avere quel senso di rispetto e di delicatezza a non creare ulteriori problemi a una situazione già di per sé molto critica.
Quali sono stati il meglio e il peggio che hai visto emergere?
In questo anno ho visto emergere sia lati positivi che lati negativi: in tutte le situazioni per recuperare l’equilibrio ci sono momenti positivi e momenti negativi: diciamo che a volte dall’entrare in crisi si trovano le risposte e soluzioni che prima non si potevano immaginare. Che cosa ho scoperto di positivo e che cosa è emerso di positivo in questo anno: la capacità di mettersi in gioco, la capacità di rinnovarsi, la capacità di vivere l’ostacolo come risorsa, di capire e di dare un senso e un valore a quella che era la nostra quotidianità che all’improvviso era stata spazzata via e quindi lo stare insieme, le relazioni, il potersi vedere, il potersi abbracciare, il potersi guardare negli occhi, il potersi sorridere. Queste sono tutte cose che hanno paradossalmente fatto venir fuori la grande ricchezza di questa situazione.
Che cosa ho visto invece emergere di negativo: a volte purtroppo ho rilevato un forte individualismo, magari derivato dal fatto che chi aveva più competenze andava dritto per la propria strada, parlo soprattutto di competenze digitali e tecnologiche, senza rendersi conto che invece c’era chi era indietro e andava aspettato: poteva essere un alunno, poteva essere una famiglia, poteva essere anche un collega perché anche tra colleghi ci sono state tante difficoltà nell’utilizzo dei ‘device’. A volte c’è stata tanta attenzione nel non lasciar indietro nessun alunno ma c’è stato anche il senso di frustrazione da parte di tanti colleghi che si sono trovati a dover insegnare in una modalità e con una tecnologia che non era assolutamente considerata nella loro mentalità. Questa è stata una grande difficolta, questa solitudine che si è vissuta, il fatto di riuscire con grande difficoltà a condividere: la condivisione in una modalità a distanza non è mai una vera condivisione perché ci sono tante problematiche anche di tipo pratico, come la connessione, il ‘device’ che non funziona bene, che possono essere dei limiti.
Sono questi i punti di forza e i punti di criticità che ho riscontrato.
Che cosa hai notato in questa situazione e che non avevi notato prima (nella scuola, negli alunni, nei colleghi)?
Quando ci sono momenti di criticità come quello che stiamo vivendo da un anno emergono a volte lati sconosciuti a ciascuno di noi. Ho riscontrato in me stessa elementi che non avrei mai immaginato come la grossa paura, il timore, talvolta anche il rifiuto di mettermi in gioco su alcuni versanti, come, ad esempio, imparare a fare i filmini: mi rifiutavo di impiegare 8 ore per fare un video di 3 minuti quando pensavo che mandare un messaggio vocale ai bambini in modo molto diretto fosse più efficace. Questa è stata una mia scelta personale; ho visto invece colleghi che si sono proprio appassionati a mettersi in gioco e che non avrebbero mai pensato di essere affascinati dal mondo del digitale. Quindi ognuno di noi ha riscontrato e ha scoperto cose che non conosceva. Ho visto colleghi che in aula erano fantastici, con una capacità di empatizzare, coinvolgere e catturare l’attenzione, andare assolutamente in crisi durante i Meet. Viceversa, ho visto colleghi più timidi e riservati, quasi più timorosi nel rapporto quotidiano con la scolaresca che nella modalità della didattica a distanza hanno scoperto una grandissima sicurezza in se stessi. Ho visto bambini con disagi di tipo comportamentale ed emotivo e grandissimi problemi legati alla frustrazione e all’ansia vissuti nel contesto classe, che invece nella modalità a distanza hanno trovato una modalità a loro consona, così come bambini che erano sempre pronti a essere protagonisti, a parlare o altro, che quasi scomparivano durante i Meet.
Per tutti e per ciascuno di noi è stato un modo di conoscersi e di vedere come possiamo cambiare a seconda della situazione e del momento.
C’è qualcosa che hai imparato e che secondo te potrebbe essere mantenuto nella normalità?
Indubbiamente ho imparato a usare molto meglio la tecnologia e tutto quello che ha a che fare con il digitale e quindi a trovare una modalità di comunicazione con i nuovi nativi digitali, anche se gli stessi bambini hanno imparato a riscoprire una modalità più tradizionale: quest’anno, per esempio, non vedevano l’ora di poter avere i libri cartacei e quando si è ricominciato a utilizzare il libro digitale erano quasi delusi perché volevano assolutamente il cartaceo, non vedevano l’ora di avere il quaderno. Forse quello che abbiamo imparato è a dare valore e a vivere con maggiore consapevolezza quelle che sono le cose quotidiane, i gesti che magari prima erano di routine, erano ordinari, erano scontati e che invece adesso sono diventati eccezionali.
Ho imparato che non si è mai arrivati e che ogni momento di crisi è comunque un volo verso la scoperta di nuove possibilità e di nuove risorse, quella che si chiama resilienza.
Alla fine di tutto quello che ci dà la carica e ci fa andare avanti è la relazione. In questo momento in cui siamo tutti isolati e siamo uno distante dall’altro è il pensiero di entrare in reazione, di entrare in contatto con l’altro che ci fa trovare la forza di superare le difficoltà. Penso che anche quando torneremo alla normalità il saper gustare le piccole cose, il saper utilizzare tutti i programmi che abbiamo imparato a utilizzare saranno un modo per cambiare il nostro lavoro e riuscire comunque a rispondere sempre meglio alle richieste dei bambini, che però hanno ancora bisogno di lavorare sul concreto.
Uno dei grossi timori che vivo per il futuro è appunto la digitalizzazione della scuola soprattutto per quel che riguarda i bambini più piccoli, quelli della scuola primaria che hanno ancora davvero tanto bisogno di lavorare sull’operativo, sul concreto, di manipolare, di giocare, di sporcarsi le mani. Questo è forse quello che ai bambini è mancato di più: il poter fare un bel cartellone insieme sporcandosi le mani con la pittura, il poter fare un disegno insieme, colorare insieme: queste saranno tutte cose che, quando sarà finito, riscopriremo e ci porteremo dentro nel nostro cuore.